Anno 2008. I seguaci di certo rock primordiale quasi alzavano le mani al cielo per la seconda uscita discografica dei Black Mountain. Vi parlo di “In The Future”, album tanto chiacchierato, quanto pronto a dividere gli amanti della psichedelia più rockeggiante e cazzuta. Da una parte, quindi, i Black Mountain venivano osannati accostandoli addirittura a Led Zeppelin, Cream, Black Sabbath; dall’altra parte c’era chi imperterrito continuava a dire che i tali sono solo un mezzo bluff, che il rock è morto e bla bla bla.
Due anni dopo esce “Wilderness Hearth” posizionandosi nella stessa corsia del precedente, ma mettendo da parte l’impronta prog a favore di un certo folk sicuramente più moderno e di chitarre ancora più massicce. E poi, anche se sembra un controsenso, il batterista Wells ne parla come il loro disco più pop. Basta ascoltare la prima track, The Hair Song, per dargli ragione: un miscuglio di chitarre spasmodiche, tastiere a là Deep Purple e il cantato che più pop non si può. Dopo di essa si cambiano note: il singolo estratto Old Fangs presenta chitarre ancor più pesanti, synth psichedelici, una sezione ritmica secca e decisa e un ritornello che quasi strizza l’occhio ai migliori Placebo, e non sto scherzando. Altre esibizioni hard rock simili alle due sopracitate sono Roller Coaster e Let Spirits Ride, quest’ultima forse un po’ troppo “esagerata”, poiché si raggiunge addirittura una certa scontatezza. Sorprende la title-track: qui addirittura corna alzate al cielo. Per il resto qualche ballata psych folk senz’altro più malinconica e desolante, dove il cantante McBean ricorda alcune sue cose già fatte nel progetto parallelo Pink Mountaintops.
Insomma, “Wilderness Heart” si presenta nel complesso come un album ben variegato, ma nello stesso tempo risulta vacuo, non riuscendo a colpire l’ascoltatore come dovrebbe, e questo è senz’altro un peccato.
Davide Ingrosso per Mag-Music
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