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“S” ha tutte le carte in regola per essere un disco degno di attenzioni sincere e provenienti da diverse qualità d’ascolto. Sa essere, sempre nelle giuste dosi e col giusto calibro, un album sperimentale, melodico, cantabile, danzabile, attuale e pure improntato su un sentire (quasi) collettivo che viene covato ormai da diverso tempo. Un sentire basato su una necessità, su un bisogno finalmente soddisfatto a pieni voti da una band che riesce a coniugare frontiere lontane eppur vicinissime: “S” è il punto in cui s’incontrano miraggi che fino ad’ora sembravano lontanissimi. Già l’iniziale Henry Miller è coinvolgente e pulsante quanto basta, con la sua potenza sonica generata dall’incrocio di una base poderosa (i synth, di primo piano in tutto l’album) e di un clapping stile M.I.A. Sembra di essere a metà tra un prodotto suonato analogico e digitale al tempo stesso, come avviene per un po’ tutto il suo percorso, caratterizzato da un sottofondo che è sempre ritmico e movimentato (ci troviamo bassi distorti, percussioni, clapping, batterie ora in sequenza ora lievemente più math Dig a Hole with a Needle). Colpisce la cura nei dettagli e il saper immortalare il momento giusto per stregare come si deve: Picture of the Sun non esplode mai, eppure colpisce e folgora nella sua ripetitività che va avanti, con le solite armonie vocali azzeccatissime, a mo’ di slogan da interpretare bene; proprio come quello del pezzo che rimarrà meglio impresso in testa, Future Days (“No revolution was ever made with love”). Sì, in quest’esplosione di freschezza, di sorrisi, d’immagini, di ricordi e sogni c’è anche il lato concettuale; perché “S” è fatto per i giovani, per gente giovane dentro, con cui puoi condividere senza paura i tuoi sogni per il futuro, e senza impantanarsi nell’ormai inutile ridondanza della polemica tout-court. Ora non voglio star qui a citare e spolpare tutti i brani ma, di sicuro, oltre ai già citati, colpiscono L.A. 13 pt.1, da cantare soddisfatti, e la conclusiva Airport Song, attenta ai suoni come del resto tutto l’album. Perché è proprio nei suoni, nella ricerca e nei dettagli che bisogna trovare quello stimolo che permette successivamente, nei secondi ascolti, di lasciarsi avvolgere dal potenziale melodico.
Non è facile da descrivere quest’ultima uscita firmata Drink to Me, ma già l’introduzione dovrebbe bastare a spingervi all’ascolto. Senza pretesa alcuna, è quello che dovete fare, dopo saprete meglio dove rivolgere lo sguardo.
Davide Ingrosso
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