Intervista ai Numero6

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Max Pezzali – soprattutto nel primo album degli 883 – ha scritto alcune canzoni interessanti, anche se in maniera naïf e inconsapevole“. “In Italia molti giornalisti – o sedicenti tali – non ascoltano i dischi, però fanno lo stesso le domande“. “Musicalmente, A chi è infallibile, ha un giro di accordi che voglio vedere chi lo scrive“. Il genovese Michele Bitossi è il sogno di ogni intervistatore: le sue risposte sono tutto fuorché banali. Come le canzoni dei suoi Numero6, giunti al traguardo del quarto album, “Dio c’è“. Quale miglior pretesto allora per un’approfondita chiacchierata con il loro leader? Ve la proponiamo a una settimana esatta dalla pubblicazione della loro ultima fatica discografica.

Sono lontani i tempi di “Iononsono”, il primo disco firmato Numero6: l’urgenza giovanile è andata – come è naturale che sia – stemperandosi, lasciando il posto a una maggiore ricercatezza. Secondo me “Dio c’è” è un (riuscito) mix tra la raffinatezza di “Dovessi mai svegliarmi” e l’immediatezza espressiva del vostro esordio poi recuperata in “I love you fortissimo“. Mi sbaglio?

Non ti sbagli affatto. Pur avendo tutti noi una certa età – abbiamo superato i trenta da un po’ di anni – abbiamo voluto rimetterci in gioco, non rinunciando a quella che tu chiami urgenza espressiva. Che poi, tradotta in pratica, significa scrivere canzoni e suonarle senza pensare troppo a quel che si fa.

Senza troppe seghe mentali.

Esatto.

L’album risulta essere musicalmente policromatico.

Abbiamo scritto molto in questi ultimi due anni. Alla fine abbiamo selezionato tredici pezzi (e altrettanti ne sono rimasti fuori): canzoni ora più immediate, pop se si vuole, ora più veloci e vigorose, ma anche episodi dagli arrangiamenti più meticolosi, più ricercati. Volevamo scrivere un disco vario dal punto di vista musicale, ma dal mood omogeneo. Un disco dal suono variegato ma non dispersivo: era questa la nostra ambizione.

E a proposito di Tristan Martinelli: ha firmato con te gli arrangiamenti, oltre alla produzione artistica. Sono suoi anche gli arrangiamenti degli archi e dei fiati. Senza nulla togliere agli altri Numero6, quanto è importante per te poter contare sul suo apporto?

Dopo “Dovessi mai svegliarmi”, siamo arrivati abbastanza vicini allo scioglimento, per tante ragioni. Quando abbiamo deciso di continuare, ci siamo anche detti che bisognava comportarsi maggiormente da gruppo. D’altronde, è vero che io scrivo i testi e le musiche, ma è anche vero che ho bisogno di confrontarmi e di interagire – continuamente – con i miei compagni, che per me sono tutti importanti. È una premessa che ritengo doverosa fare. Detto ciò, con Tristan mi trovo molto bene, anche perché lui a differenza mia – per una sua personale autocensura – non scrive una sola nota. È però un grande arrangiatore: uno di quelli capaci, con un arrangiamento indovinato, di rendere molto bella una canzone discreta. Tristan è molto importante. Come lo è Stefano Piccardo, che pur non partecipando alla fase compositiva, ha maturato un chitarrismo davvero interessante. C’è tanto di lui in questo disco. Come c’è tanto di Federico Lagomarsino alla batteria: l’unico batterista che ho incontrato in vita mia – e ne ho incontrati tanti – al servizio della canzone. Tutto questo, per dirti della grande coesione che ha accompagnato la scrittura di “Dio c’è”.

Veniamo all’album e al suo primo singolo, Fa ridere. Io l’ho fatto ascoltare ad alcune persone, e quasi tutte ci hanno sentito i primi 883. Come te lo spieghi? Forse la sua scrittura ha risentito della cover di Hanno ucciso l’Uomo Ragno, con cui avete partecipato a “Con due deca”, compilation dedicata al gruppo di Max Pezzali?

Non sei il primo a dirmelo. In realtà il pezzo era già scritto quando abbiamo deciso di partecipare alla compilation. Ma anche se lo avessi composto dopo posso dirti, con un certo livello di sicurezza, che difficilmente mi sarei ispirato a Max Pezzali: non ho nulla contro di lui, solo mi sento lontano dal suo immaginario, dal suo modo di scrivere le canzoni.

Il pezzo è molto “catchy”: entra subito in testa. E da quel che ho visto, non ha avuto difficoltà a insinuarsi nella playlist di Radio2.

Eppure lo avevo lasciato fuori dalla scaletta. È stato Stefano a recuperarlo, solo dopo avermi dato del “pazzo”. È sua anche l’idea di farne il primo singolo. Io ho accondisceso, ma non sono mai stato troppo convinto. E non lo sono tuttora: però sta piacendo… Secondo me non è rappresentativo del disco. Probabilmente un altro pezzo del disco non ci sarebbe finito su Radio2: la canzone può sembrare leggera ma, se leggi il testo, ti rendi conto che è abbastanza drammatica. Secondo me ha due/tre livelli di ascolto, e questa può essere la sua forza.

Perché partecipare a una compilation di cover degli 883? Ti intrigava forse confrontarti con un mondo musicale distante dal tuo?

Quando uscì “Hanno ucciso l’Uomo Ragno”, ricordo che mi piacque molto. E mi piace ancora adesso. Nella sua parziale insensatezza, è un pezzo che trovo molto forte. E quindi quando Rockit ci ha proposto di partecipare a “Con due deca”, ho subito accettato. Mi piaceva l’idea di mettermi in discussione, di sperimentare: è con lo stesso approccio che feci la cover di Too Much of Heaven degli Eiffel 65. Se vuoi, c’è anche un po’ di interesse perverso nel confrontarmi con immaginari e approcci estremamente diversi dal mio. Rapportarmi a Hanno ucciso l’Uomo Ragno non è stato facile: me lo sono immaginato come un pezzo dei R.E.M. di “Automatic for the People”. Mi sono fatto questo trip mentale e ne è uscita una cover che a me piace. Come mi è piaciuta alla fine un po’ tutta l’operazione targata Rockit.

A giudicare dai commenti in rete, molti non sarebbero d’accordo con te.

Fa parte del gioco. Se non volessi critiche, non dovrei più fare dischi. Invece nel momento in cui sono pronto a confrontarmi e a espormi, so benissimo che rischio di essere criticato. C’è solo una cosa che mi ha dato fastidio in tutta questa storia: nel panorama cosiddetto indie – che è un po’ autocompiaciuto e si parla molto addosso – c’è tanta voglia di criticare e poca di essere propositivi, e questo secondo me è un peccato. Comunque, chissenefrega: abbiamo fatto una cover degli 883? A mio modo ne vado fiero.

Con il video però vi siete tolti qualche sassolino dalle scarpe.

Il video è uno scherzo, un giochino: volevo sperimentare un’idea che mi era venuta in mente. Fa parte del nostro approccio alla musica, che ci contraddistingue fin dall’esordio con i Laghisecchi (la precedente incarnazione dei Numero6, ndr):  vale a dire, cercare di dire delle cose nel modo migliore possibile, prestando attenzione alla struttura delle canzoni, ma senza rinunciare – mai – a una buona dose di (auto)ironia. Credo che conservare un sano distacco tra quel che si è e quel che si fa, sia importante, perché se ti prendi troppo sul serio rischi di perdere di vista quel che fai, di frustrarti.

Chiudiamo il discorso cover. Non si tratta della prima che realizzate per una compilation. Ricordo Fegato, fegato spappolato – insieme ai Perturbazione – per un tributo dedicato a Vasco Rossi e la già citata Too Much of Heaven Senza dimenticare Un’estate al mare, presente sul vostro primo album “Iononsono”. Che cos’è per te la cover: un mero esercizio o un modo per omaggiare un collega che apprezzi?

Entrambe le cose. Secondo me, la questione si può ascrivere sotto due approcci:  quando vuoi omaggiare un artista che ti piace e quindi ti avvicini alla canzone in maniera un po’ timorosa. Con un po’ di sana paura, di insicurezza. Però nel momento in cui hai superato lo scoglio del timore reverenziale, cerchi di farla tua e di non reinterpretarla pedissequamente. E poi ci sono episodi in cui ti approcci alla cover in maniera più serena perché non hai alcun timore reverenziale, come sinceramente non ce l’avevo, e mi scuserà, per Max Pezzali: in quei casi si ha un atteggiamento molto più giocoso, scevro da ansie e paure: ci si lascia andare perché non si ha nulla da perdere. Fegato, fegato spappolato invece è molto importante per me. Quando abbiamo fatto la cover, insieme con i Perturbazione, non volevo assolutamente rovinare una canzone che ritengo davvero molto bella. Secondo me è la nostra cover più riuscita perché, pur senza stravolgere il pezzo, lo abbiamo portato da altre parti.

Dopo “Il problema di girarsi“, tuo primo disco solista, continua il rapporto con la Urtovox. Che cosa significa per i Numero6 potersi fregiare del marchio dell’importante – in ambito underground – casa discografica fiorentina?

Con Paolo Romanzelli, che poi è Urtovox, esiste un rapporto consolidato ormai da qualche anno. Siamo anche soci su vari progetti che io porto avanti con la mia The Prisoner Record: lui è mio partner sulle edizioni musicali. E poi esiste soprattutto un rapporto di amicizia. Sono contento che usciamo per la Urtovox: un’etichetta molto coerente, che negli anni ha sempre puntato sulla qualità, rischiando ma senza mai tirarsi indietro. Uscire sotto la sua egida è il coronamento di un percorso che, tranne rari casi, è sempre stato nell’undeground.

Discorso collaborazioni. Mai come in questo disco ricche. Facile trovare il legame con Giulia Sarpero, voce dei Kramer da te prodotti. Ma come nasce l’idea della featuring di Lorenzo Urciullo, in arte Colapesce?

Conobbi Lorenzo ormai otto anni fa, quando organizzò un nostro tour in Sicilia. Entrammo subito in sintonia perché – a parte la sua simpatia e il suo modo di fare che mi colpì positivamente – mi piacque come persona. Poi mi fece ascoltare i provini di alcune sue canzoni: mi piacque il suo modo di scrivere, di cantare, di creare… la sua attitudine. L’esordio degli Albanopower doveva addirittura uscire per la mia The Prisoner Record, che all’epoca era solo un’idea abbozzata, ma poi non se ne fece niente. Avevo quindi questo brano, Un mare, e sentivo che sarebbe stato carino un duetto. Ho subito pensato a Lorenzo: gli ho mandato il pezzo, gli è piaciuto tantissimo e l’ha cantato. Ecco tutto.

Quindi il suo è stato “soltanto” un apporto vocale?

Sì, lui ha fatto il cantante. E secondo me è anche un ottimo cantante. Io ho ascoltato il suo disco solista e mi è piaciuto molto. E Un mare era proprio un pezzo da Colapesce: parla di fare a pugni con la nostalgia per cercare di avere la meglio.

E con Giulia Sarno, in arte unePassante?

A me piace tantissimo il suo modo di scrivere e di cantare. Ci siamo conosciuti a un nostro concerto a Firenze: era venuta a vederci e abbiamo fatto quattro chiacchiere. Nel frattempo ci siamo tenuti in contatto via mail. Quando ho avuto bisogno di una voce femminile, ho pensato a lei: avevo già utilizzato Giulia Sarpero e nel contempo volevo un approccio diverso alla vocalità femminile. Ho pensato che A chi è infallibile potesse essere adatto a lei. Le è piaciuta ed è venuta a Genova per le registrazioni.

“Dio c’è” è il vostro primo disco contraddistinto da una certa policromia vocale.

– Esatto. Volevo trasmettere ulteriori nuovi colori. E cercare di non stancare troppo l’ascoltatore con la mia sola voce: alternarla con quella di altri rispondeva proprio alla voglia di offrire nuove sfumature.

Devo dirti che il duetto con unePassante mi è piaciuto molto. Così come quello con Colapesce. Meno Storia precaria: il canto di Giulia Sarpero non mi ha convinto appieno. E anche la canzone in sé – inutilmente lunga – a esser sincero non mi fa impazzire.

Mi fa piacere che tu lo dica: bisogna anche confrontarsi con punti di vista differenti. Storia precaria è invece uno dei miei pezzi preferiti. Mentre lo provavamo, è venuta fuori l’idea di una coda musicale. Abbiamo coinvolto allora un nostro amico, Simone Lalli in arte Autobam: gli abbiamo chiesto di far sfociare il pezzo in un delirio elettro-pop, che nulla centra con la prima parte della canzone ma che è in linea con il testo: la storia di questo ragazzino che, abbagliato dal successo dei rapper del momento, vorrebbe la loro stessa popolarità ma fa poi un gran casino. Comunque, capisco che possa non piacere.

Come si dice: de gustibis.

A me per esempio fa schifo Fa ridere.

 E a proposito di Storia precaria: quanto dei tuoi pensieri ci sono dietro il ragazzino? La tua magari voleva essere anche una presa di posizione contro le radio che pompano il genere del momento?

Ho letto una recensione in cui il testo viene frainteso. Mi dispiace, ma non è un problema. Sembra che sia io il protagonista della canzone. Questa è una lettura un po’ superficiale delle canzoni…

Avranno pensato che i tuoi testi debbano essere necessariamente autobiografici.

Ognuno è libero di dire quello che vuole: lo ripeto, se non non volevo ricevere critiche, facevo un altro lavoro. Detto questo, è evidente che mi metto nei panni di un ragazzino: c’è il testo, basta ascoltare la canzone. E per rispondere alla domanda: no, non ho alcuna critica da fare tramite quel pezzo. Storia precaria semplicemente fotografa quella grande bolla di sapone che è il rap italiano, il genere del momento: una sorta di cartoon senza contenuti, plastica buona per ingraziarsi i ragazzini di dodici-tredici anni. Lo capisco, è business, raschiano il fondo del barile guadagnando finché è possibile. Si badi bene: lo dico con la serenità di chi fa un altro campionato. Però i contenuti proposti sono pericolosi. Purtroppo l’Italia è questa qua.

Per utilizzare una frase fatta: negli anni sessanta c’era Lucio Battisti, ed oggi invece…

Attenzione. Io non voglio fare il bacchettone nostalgico perché a me piace essere sul pezzo. Come mi piace tantissimo pensare che, anche in Italia, ci siano dei ragazzini che fanno delle figate. È una questione di cultura: in Inghilterra per esempio da sempre vengono lanciati i giovani talentuosi. Anche nel calcio. Rooney aveva quattordici anni quando fece il suo esordio nella massima serie. Qui in Italia non accade. È vero però che il discorso è molto più ampio. In ogni caso, se decidi di stare in Italia come ho deciso io, cerchi di vedere le cose che vanno bene. Le cose che vanno male, io, cerco di criticarle in maniera ironica.

Ci vorrebbe un periodo di crisi anche nel mondo musicale, come sta avvenendo in quello calcistico, per permettere all’El Shaarawy di turno di emergere.

– C’è troppa poca autocensura. Anzi, non ce n’è per niente. C’è una miriade di ciarlatani che accende il pc, apre GarageBand, fa un mp3 con due/tre cazzate, lo mette in rete…  ed ecco il nuovo gruppo del momento. Così però si crea un marasma senza senso, in cui si perde il valore della composizione, della creazione, del lavoro che più o meno c’è dietro ogni canzone. L’ansia-da-pubblicazione-causa-Internet crea una situazione paradossale. Ci vorrebbe un bel torneo di roulette russa, altro che quello di calcetto delle etichette indipendenti.

Dopo Heypa, in Sessantasei torni a parlare del rapporto con tuo padre. Le due canzoni sono molto diverse tra loro, sia dal punto di vista musicale che da quello lirico. Come mai hai deciso di inserirla in un album dei Numero6? Non rischi di confondere i due livelli?

Bella domanda. Giusta e opportuna. Nei Numero6, da due dischi a questa parte, ho deciso di cambiare l’approccio alla scrittura per una questione di crescita personale, ma anche perché i miei compagni mi hanno fatto capire che sarebbe stato bello portare i mie testi a un livello meno autobiografico e più universale. Heypa è un pezzo molto intimista e stava bene sul mio disco solista. Sessantasei invece è ancora una canzone su mio padre, ma anche su una più universale elaborazione di un lutto. Quando ho fatto sentire il pezzo ai miei compagni non hanno avuto dubbi nel volerlo in scaletta. La tua osservazione è giusta e opportuna perché io per primo ero dubbioso e ho chiesto ai ragazzi se se la sentissero di fare questo pezzo. Un pezzo come Heypa invece sarebbe stato assolutamente fuori contesto.

In Sessantasei tra l’altro citi anche il tuo idolo incontrastato, Keith Richards, e forse uno dei riff che più apprezzi, quello di Jumpin’ Jack Flash.

È proprio un riferimento a mio padre e ai suoi gusti musicali: è lui che mi fece scoprire i Rolling Stones. Mi sono immaginato io e lui che usciamo insieme e ci prendiamo un trip: ho provato a ricordarlo con gioia. Cosa che quando ho scritto Heypa non potevo fare perché ero disperato, in quanto era morto da due giorni.

Un marchio di fabbrica delle tue liriche sono i riferimenti ai tuoi idoli musicali oppure all’immaginario cinematografico. Questa volta è il tuo turno di Robert De Niro protagonista di “Taxi Driver” e anche di François Truffaut. Questa tua cifra stilistica è anche un modo per condividere un mondo musical-letterario-cinematografico con i tuoi fan?

Ci ho pensato e devo dire che, sì, può essere una chiave di lettura interessante. Forse non conscia, perché nel momento in cui scrivo un testo in italiano, in una prima fase, tendo a non curarmi delle parole. Scrivo in finto inglese, mi preoccupo della linea vocale. Prima di tutto c’è la musica. Mi incasino la vita pazzescamente perché scrivere in italiano è più difficile. Quando poi inizio a pensare ai testi, per una questione di suggestioni, di fotografie mentali, vengono fuori De Niro, Truffaut… Ma Truffaut è anche un gioco di parole. Alcune volte, quando scrivo, mi affido al mestiere, utilizzando giochi di parole, trucchi, che però poi devo dire che quasi sempre si rivelano interessanti. Ti dirò una cosa che può sembrare contraddittoria rispetto a quanto detto in precedenza: questo disco – e ora la sparerò grossa – a livello di liriche risente un po’ del rap. Alcune volte, cerco di lavorare in rima con dei giochi di parole, e questa è una lezione mutuata dal rap. La lingua italiana ha delle effettive difficoltà a essere tradotta in musica e quindi bisogna adeguarsi.

E quindi chapeau a chi scrive nella lingua di Dante. Continuando il discorso liriche. Ho notato poche metafore calcistiche. Come mai?

– È una questione di ispirazione: semplicemente non è venuta. Mi sarebbe sembrato un po’ ridondante battere di nuovo sull’ambito calcistico. Inoltre la mia passione per il calcio non è condivisa dagli altri Numero6. E poi, dato che ho intrapreso un percorso solistico, sarebbe inopportuno puntare su un immaginario che posso comunque sviluppare, se voglio, nel mio percorso solistico.

Nell’EP “Quando arriva la gente si sente meglio” le liriche di Navi stanche di burrasca sono dello scrittore Enrico Brizzi. Com’è cantare un testo scritto da qualcun altro?

Non disdegno cantare testi altrui. Certo, se dovesi cantare una canzone di Emma Marrone, farei fatica: non ci riuscirei. Se devo cantare un testo di Brizzi come Navi stanche di burrasca – un’esperienza folgorante – ci vado a nozze e sono contentissimo. È una questione di qualità. Però anche un testo senza tante pretese, infantile come Hanno ucciso l’Uomo Ragno, può essere cantato: è una questione di approccio. Non sempre bisogna essere duri e puri. Si può anche giocare. Secondo me, bisogna avere l’approccio giusto volta per volta.

E invece come giudichi l’esperienza con Matteo B. Bianchi, co-autore di Chiederti scusa presente in “I love you fortissimo” e tuo compagno di avventura nei Nome?

Molto interessante: Matteo ha un approccio pop che mi piace molto. Tra l’altro, stiamo lavorando al nostro prossimo singolo. E, perché no, potrebbe essere l’autore dei testi del mio prossimo lavoro solista.

Farti scrivere i testi: è l’ultima cosa a cui avrei pensato.

So che può sembrare un’idea strana, però potrebbe rivelarsi interessante. Penso che possa essere un lavoro psicanalitico affascinante. Potrei dare a Matteo dieci spunti e dieci canzoni già fatte con la linea vocale, e lui potrebbero completarle con i testi. Le collaborazioni, almeno personalmente, mi stimolano e mi piacciono.

Magari potrebbe essere più interessante scrivere musiche su testi già pronti.

Anche, certo. Lo vedo più macchinoso: nel senso che, come ti dicevo prima, sono molto poco propenso – e questo forse è un limite – nel musicare testi di altri. Io funziono bene quando scrivo le canzoni con una linea vocale ben precisa.

Abbiamo citato più volte “Il problema di girarsi”: il tuo esordio solista avrà un seguito?

Adesso voglio concentrarmi su “Dio c’è”. Secondo me, nel giro di un anno e mezzo uscirà un altro disco a nome Mezzala. Sto lavorando ad alcuni pezzi, ho già un po’ di canzoni. Devo capire cosa farne. Voglio incidere un disco davvero diverso, sia rispetto a quelli dei Numero6 che a “Il problema di girarsi”. Voglio che Mezzala diventi un’entità davvero molto caratterizzata, perché il mio esordio aveva tante similitudine con i Numero6 con testi però più introspettivi.

Foto di Luca Saini

Christian Gargiulo

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Blogger professionista e da sempre appassionato esperto di telecomunicazioni, serie tv e soap opera. Giuseppe Ino è redattore freelance per diversi siti web verticali. Ha fondato teleblog.it, tivoo.it, mondotelefono.it, maglifestyle.it Ha collaborato tra gli altri anche con UpGo.news nella creazione di post e analisi. Collabora con la web radio Radiostonata.com nel programma quotidiano #AscoltiTv in diretta da lunedi a venerdi dalle 10 alle 11.

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