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Metallo all’antica, nonostante tutto. Mi spiego meglio. È facile avere vent’anni, una stanzetta insonorizzata, chitarra, basso e batteria a buon mercato e tanti amici col pallino per i Led Zeppelin per tirare fuori una jam fuori tempo massimo. Più difficile resta senz’altro sapere trasportare la spregiudicata follia free form di quegli anni preziosi e creativi nel pastone malefico delle uscite degli ultimi anni, e mi riferisco soprattutto a quelle relative ai colleghi di etichetta più leali al suono gloomy e doom della Southern Lord.
Gli Eagle Twin al secondo disco e con più droga nel cervello di quanto sia fisicamente concesso a essere umano ci provano e spaccano tutto tirando fuori un capolavoro baracconesco e strampalato che è un’implicita e taciuta ode al genio creativo di questi fumosissimi anni di ricicciamento e orgia dei generi, pur immolato alla causa dello sludge più sbracato.
Voci ipnotiche e vibranti più simili a corni soffiati che a rantoli sludgy, batterie sospese e rallentate, sempre pronte a polverizzare tempi e ritmiche con partenze jazz, magniloquenza ottantiana tipicamente metal e umori tra il divertito e l’ironico che tradiscono tutta la sincera devozione della band per gli eretici ibridi contemporanei e postmoderni. Niente spazio alla serietà celebrativa di Sunn O))) e delle altre band del boss della Southern Lord, qui l’impianto estetico è chiaramente piegato alle esigenze stesse del suono, irregolare e concepito in progress. Viene da pensare agli Om per quel cantato o ai Weedeater per l’incedere lento e danzante, ma si rischia di catalogare il tutto troppo facilmente sotto il genere più consono all’etichetta. E invece qui, man mano che l’album scorre, si rischia di farsi inghiottire da un turbine fangoso intricato e dalle strutture basiche sempre più irrintracciabili, in ossequio ad un’idea di trip devastante che è assieme climax e impalcatura del disco.
Suoni baritoni, elettricità sfrigolante nell’aria, compressioni instabili, metallo d’ambiente senza essere ambient.
Due minuti e vi spiego un po’ l’effetto che il disco ha sortito su di me. Io che non mi concedo alle abitudini debosciate del novanta percento dei ragazzoni dell’etichetta sottoponendomi a questo disco ho provato un po’ la sensazione che si ha ascoltando un disco dei Bolt Thrower. Non che suonino lo stesso genere o che le premesse al loro stile siano simili, ma quando ti avvicini a un disco della band simbolo della Earache non puoi non restare intrappolato nell’incanto infantile di quelle oscene e bellissime copertine ora fantasy, ora futuriste, ora steampunk. Ecco, è questo il magnifico sortilegio del metal: fare i cazzoni con pretese assurde, suonare cose grosse e magniloquenti nel segno di una poetica risibile, parlare di massimi sistemi tra una birra e l’altra. “The Feather Tipped the Serpent’s Scale” è tutto questo in chiave sludge: un magnifico trip preso benissimo (strano ottimismo quello della band, di solito il genere non concede speranza) fomentato da una progressione musicale tra la jam session e un certo ritualismo doom fanfarone.
La colonna sonora perfetta per un abissale 31 dicembre. Da ascoltare subito.
Nunzio Lamonaca
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