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A Roma, per fortuna, di concerti ce ne son parecchi. Eppure, altrettanto fortunatamente, l’entusiasmo per la musica live si sopisce con estrema difficoltà, soprattutto quando fanno tappa nella Capitale nomi di un certo calibro. I Beach House, creatura di Alex Scally e Victoria LeGrand, sono certamente tra questi.
Tanta, tantissima gente. Un’infinità di persone, la cui presenza va oltre ogni più rosea aspettativa. Una lunghissima fila, prima di entrare nello storico locale di Via Tagliamento. Vuoi per la pioggia scrosciante che ha colpito la domenica romana, vuoi per la coscienza di ciò che si sarebbe andato a vedere, l’atmosfera pre-concerto è già irreale di per sé.
Il Piper è davvero pieno quando accoglie sul palco il duo americano più amato degli ultimi tempi, accompagnato alla batteria da Daniel Franz. Un mare molto eterogeneo di persone, in piena trance sognante per il dream pop di Alex e Victoria, come se la musica riuscisse a far dimenticare la calca e l’assenza del benché minimo spazio per muoversi. Sguardi puntati verso il palco, contornato da luci ed effetti visivi a dir poco affascinanti, che avvolgono le figure di Alex, Victoria e Daniel, quasi fluttuanti in un gioco di chiari e scuri davvero suggestivo. Si parte con Wild, seconda traccia dell’ultimo, fortunato album “Bloom“. Nonostante dei suoni inizialmente non perfetti (vuoi anche per la posizione un po’ defilata in cui siamo costretti), si è già in un altro universo, muovendosi chissà per quali galassie. Victoria, con i suoi movimenti di mani sinuosi e con la sua voce ammaliante, è semplicemente magnetica, tra femminilità e sogno. Le chitarre di Alex filano note ariose che s’inseriscono in un tessuto sonoro da capogiro. La batteria, minimalista e precisa, detta i tempi del viaggio in un cielo trapuntato di stelle fredde e abbacinanti. Molti estratti da “Bloom”, quasi altrettanti dal precedente “Teen Dream”, pochi ma efficaci capolini nel passato meno recente (Heart of Chambers e Master of None), ed è magia. Si può dire che le canzoni tendano ad assomigliarsi molto tra loro, è vero. Eppure sembra che non se ne abbia mai abbastanza. Come se a ogni brano ci se innamorasse ancora, ancora più follemente. A fine concerto, dopo che Irene fa calare il sipario sull’esibizione dei Beach House, si torna verso la strada, fuori dall’universo parallelo in cui si era stati per un’ora e passa. Il loro dream pop non sarà la cosa più sconvolgente della storia della musica. Ma fa bene, cazzo se fa bene. E si può anche tornare a immergersi nella pioggia, senza peso.
Livio Ghilardi
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