[adsense]
Estrema malinconia dalla Città Eterna. Gianluca Divirgilio, titolare unico del progetto Arctic Plateau, in attesa della pubblicazione di “The Enemy Inside” (di cui potete leggere lo Studio Report), successore dell’esordio cristallino intitolato “On a Sad Sunny Day” del 2009, si lascia andare ad una lunga intervista, che spazia dall’esordio fino alla recente pubblicazione dello split con i Les Discrets, anteprima del nuovo lavoro.
– Come hai iniziato con la musica? Qual è stato il tuo primo approccio?
– Ho iniziato come per un vizio: per abitudine. Ho incominciato ad interessarmi di musica in modo creativo verso i 13 – 14 anni di età, e prima di allora ricordo che rimanevo imbambolato di fronte alla musica, pur quasi non volendo. Difatti quando ero molto piccolo restavo come spaventato da essa; impietrito di fronte ad una cosa che sentivo così forte e da cui non riuscivo a sfuggire, ne perdevo il controllo, non riuscivo a gestire le mie emozioni di fronte alla musica. Non ne capivo il perché e questo in un primo momento mi spaventò molto.
Il primo approccio come molto spesso capita è in famiglia. Mio fratello maggiore suonava il basso per diletto in una band chiamata Gli Atomi. Era il 1977 ed il sottoscritto rimase folgorato dal fascino che sprigionava la batteria acustica quando la vide suonare per la prima volta. Più tardi la musica assunse per me un significato maggiormente importante; cominciai ad ascoltarla in modo molto intimo, spesso in cuffia. Mi aiutava a stare da solo e mi divertiva come nessun altro gioco o amico al mondo. Nel 1986 mi fu regalata la mia prima chitarra classica, che tentavo di suonare arpeggiando a tre dita creando piccoli incisi che appuntavo sul registratore a cassette. Un anno dopo mia madre mi convinse a prendere lezioni di chitarra classica e cominciai a suonare la chitarra classica con un insegnante, studiando gli esercizi basici dal metodo Sagreras e quindi imparando ad arpeggiare (un piccolo esempio di quegli incisi è contenuto nell’arpeggio iniziale di un brano di nome Alive, che apre il primo album a nome Arctic Plateau; esso non è altro che un frammento di uno di quegli incisi dal sapore classico che scrivevo in quegli anni e che ho custodito insieme ad altri brevi interventi, scritti al tempo).
Quando arrivò la mia prima chitarra elettrica smisi completamente di prendere lezioni di chitarra classica e fui investito da un’energia che nessun insegnante al mondo avrebbe potuto canalizzare dentro di me in modo direttivo; m’immersi totalmente in quel mondo cercando di decifrarlo, creando quanti più gruppi potessi, prendendo lezioni qui e là come e quando potevo, frequentando altre persone dai miei stessi interessi e suonando in ogni dove attaccato ai più disparati mezzi; sperimentando, provando e riprovando, sbagliando ed imparando, affezionandomi dapprima a generi come la new-wave dei Cure e dei New Order, attraversando, come tutti abbiamo fatto, quanti più generi possibili, suonando le note di qualsiasi cosa mi piacesse e cercando di farlo sempre in modo migliore. Tutto il resto lo imparai dopo, da adulto. Ed oggi ne sono felice.
– Quali sono stati i dischi che ti hanno maggiormente influenzato?
– Sicuramente i dischi che mi hanno maggiormente influenzato sono usciti tra l’80 e il ’90; “Disintegration” dei Cure di sicuro, “October Rust” dei Type O Negative anche; così come roba estrema Black e certamente il primissimo disco dei Novembre, che trovo molto attuale ancora oggi, all’interno di un certo genere underground.
– Parlando un attimo dei Novembre, Carmelo Orlando, voce del gruppo, ha partecipato al tuo nuovo album di prossima uscita. Emozionato?
– Carmelo ha un talento particolare; riesce a semplificare ed esporre in modo autentico e molto personale tutto ciò che “sente”. Un musicista del genere dovrebbe avere ancor più grandi consensi e meriti, un musicista dalle doti ineguagliabili. Una sensibilità ineguagliabile. L’emozione da parte mia in studio c’era, certo, ma Carmelo è uno di noi; ciò che lo differenzia è l’enorme bagaglio di esperienza accumulata in anni e anni di attività.
– Prima di Arctic Plateau, hai suonato in altri gruppi?
– Ho suonato per anni in gruppi più o meno sconosciuti; ho suonato per anni in cover band, ed ho stampato vinili autoprodotti (i promo dal famoso centrino bianco) legati al mondo dell’elettronica su pseudonimi improvvisati spesso al momento. Collaboravo con molti Dj ed in passato ero io stesso un Dj. Ho suonato cover in tanti centri sociali ma l’ultima band, dalle cui ceneri è nato il progetto Arctic Plateau, si chiamava Spirit of Opportunity ed è la prima volta che ne parlo. Nacque nel 2004, genere orientato verso il post-rock, un interessante intreccio fra post-rock e altre influenze. Come ho detto preannunciava Arctic Plateau, ma non ho mai utilizzato alcun riff dell’epoca per l’odierno progetto. Feci un promo di cento copie e poi sciolsi il gruppo, prevalentemente per motivi personali.
– Possiamo dire che Arctic Plateau sia risorto come una fenice dalle proprio ceneri.
– Diciamo che piuttosto è nato “salvo” dalle contaminazioni egocentriche classicamente proprie di una band formata da più teste; non è un caso che io sia approdato ad una label da solo, venendo da anni di autoproduzione nel senso classico del termine. Troppo spesso ho dovuto fare i conti con le paranoie da primadonna di alcuni pseudo musici, che spesso avevano un quarto del talento che cercavano di imitare, ma il doppio dei soldi che avevo io. Naturalmente le conseguenze si traducevano dapprima in musica, fino ad approdare nel silenzio sconfinato. E quando la musica è finita non c’è più molto da dire. Troppo spesso si pensa che questo tipo di vita sia facile, si pensa che sia una passeggiata la musica e tutto quel che c’è intorno. Purtroppo succede anche questo ed io ho preferito fare i conti solamente con me stesso.
– Il nome Arctic Plateau da dove arriva?
– Avevo in mente qualche nome e scrissi all’epoca qualche cosa su un file .txt che ho ritrovato qualche giorno fa, nel momento in cui ho cliccato ed aperto questo documento mi è venuto da ridere perchè c’era scritto a caratteri cubitali Arctic Plateau! Il nome deriva dalla voglia di avere a che fare con grandi spazi aperti, tutto in realtà è un’allegoria per dar senso ad una musica ariosa il più possibile e liquida nella mia immaginazione, qualcosa di sconfinato…
– Beh, un moniker che riflette per bene la tua musica.
– Ti ringrazio, spero che sia questa la sensazione per chi la ascolta
– Prima dicevi che sei approdato a una label da solo. Quella label è la Prophecy Production, con base in Germania, e un magnifico catalogo di tutto rispetto con nomi come Alcest, Les Discrets, Lantlôs i tuoi concittadini Klimt 1918 e molti altri.
– Sì. Un’etichetta underground di tutto rispetto, che sopravvive alle durissime leggi del durissimo mercato odierno solamente grazie alla passione per la musica vera. Il catalogo negli ultimi anni è cresciuto molto in qualità e sono fiero di fare parte di questa magnifica esperienza. Credo molto in questa sorta di scena che si è venuta a creare, il futuro è nell’underground. È il mainstream (e tutti i suoi turnisti del caso) che ha bisogno di noi, non il contrario. Se guardi attentamente cosa sta succedendo potrai vedere con certezza che il mainstream stesso attinge (per non dire clona) i suoni che sente all’interno delle produzioni underground. Ed è qualcosa che si manifesta soprattutto in Italia, in certi tipi di situazioni.
– Come sei entrato in contatto con lei? Il classico demo? Il passaparola?
– A quel tempo lavoravo presso una delle tante s.r.l. improvvisate e precarie nella forma e nella sostanza sparse qua e là nel nostro caro Paese alla deriva, ma vinsi il primo premio produzione della mia vita; Invece di sputtanarmi tutto quanto, andai in uno studio di registrazione e registrai la musica che avevo inciso non appena terminato il discorso Spirit of Opportunity. Nello studio Emerald Recordings Incisi il seme che poi portò al contratto qualche tempo dopo. Ricordo che spedii circa cinquanta promo in tutto il mondo e mi fu consigliato da Marco Soellner dei Klimt 1918, grande amico e musicista, di spedire anche a Prophecy. Qualche tempo dopo anche Fursy Teyssier mi contattò via MySpace, ma il cd promo era già sul tavolo della Prophecy e nella mia posta c’era già una proposta di contratto! Decisi di attendere un poco, avevo altre proposte, ma la migliore, qualitativamente ed economicamente parlando, proveniva dai tedeschi della Prophecy Productions.
– Veniamo quindi al tuo primo album come Arctic Plateau: “On a Sad Sunny Day”. Titolo, copertina e contenuti impregnati in una malinconia glaciale.
– La malinconia è un dato di fatto, esiste dentro tutti noi e l’unico modo che ha di manifestarsi a livello di contatto visivo immediato è attraverso uno sguardo. Sotto questo punto di vista ho sempre pensato ad una musica che avesse gli occhi puntati verso la linea dell’orizzonte e che fosse così profondamente travolgente da non aver bisogno di essere descritta troppo attraverso le parole. Per quel disco è stato così e per i prossimi non posso dirlo con certezza, ma la malinconia non mi abbandona mai sin da quando ero un bambino.
– Chi suonò oltre a te sul disco?
– I turni in studio furono affidati a Fabio Fraschini, già ex bassista con i Novembre. Cesare Petulicchio dei Bud Spencer Blues Explosions suonò tutte le sequenze di batteria. Luigi Colasanti Antonelli fu l’ingegnere del suono assieme a Fabio.
– La copertina è opera di Fursy Teyssier: apprezzato disegnatore francese, autore di molte bellissime copertine e mente del progetto Les Discrets.
– Fursy è stato gentile sin da sempre; un autentico talento e un grande signore molto poco attaccato al mero profitto e molto preso dall’arte in senso generale, non soltanto dalla musica, che comunque lo vede in primo piano nel roster della label di cui facciamo parte. Egli si è occupato dell’artwork, mentre le vere e proprie foto di copertina (così come le foto del booklet interno e quella del retro) sono opera di Chiara Taddei; una fotografa italiana che vive a Berlino, che oltre a mostrare un talento ed una sensibilità altamente onirica, fotografa (in analogico) contesti riconducibilissimi a quel tipo di sguardo a cui ho fatto riferimento poco fa, al confine fra sogno e realtà.
– Suonasti anche dal vivo?
– Suonai un dj set invernale a Roma in una serata assieme a The Niro; presentai alcuni brani shoegaze mischiati ai miei in una scia che ripercorreva dagli Slowdive ad oggi, il tutto visto in chiave molto riverberata, utilizzando il mio laptop; Suonai poi i brani del primo album al Wave Gothic Treffen nel 2010 in un concerto vero e proprio con una band vera composta da Fabio Fraschini al basso, Gino Chiarizia alla chitarra e Massimiliano Chiapperi, new entry di qualità, alla batteria.
– Quindi hai suonato pochissimo, ti rifarai con l’uscita del nuovo album?
– Penso proprio di sì, sto cercando di organizzarmi, le prove cominceranno a breve
– Con una nuova line-up?
– Si; principalmente la novità è l’ingresso di Massimiliano, il batterista. Egli ha suonato in studio per il secondo album, ha un avvincente classe wave innata nel tenere il tempo, è preciso e molto disponibile al dialogo. Un possibilista, per il quale tutto è realizzabile, anche cambiare suono all’ultimo momento.
– Da pochi giorni è uscito uno split con i Les Discrets, che anticipa i vostri prossimi album.
– Sì, ma gli album di entrambi conterranno alcune sorprese; abbiamo realizzato un ottimo split, tra cover e versioni demo più anticipazioni dai prossimi album. Grazie alla collaborazione dell’etichetta è stato possibile realizzare dei bei vinili e un doppio cd! Siamo molto fortunati.
Marco Gargiulo
[adsense]
0 comments