“Persistenza c’è di lei: vigorosa sobrietà, nei tesori che curò dalla ingiurie dell’età. C’è chi ancora la ricorda, lunghe gambe sul sentiero, con la sua schiva bellezza, le sue poche primavere“.
Il Medioevo è nuovamente alle porte, inteso come morte culturale, sociale ed in particolar modo di raziocinio. E questo non riguarda solo l’Italia, ma anche altre zone del globo. La dittatura del cattivo gusto, ma quello vero, dove vengono legalizzati in prima serata sui presunti canali di controinformazione gli insulti a chi realmente ha fatto dell’essere intellettuale una ragione di vita. Dinanzi a condizioni simili c’è da combattere e resistere. Come c’è da combattere e resistere nelle canzoni che danno luogo a un album dove reduci da prog e black metal s’incontrano ancora una volta, fuori da ogni contraddizione, concentrati su un unico fulcro. Quello attorno a cui ruota l’idea di concept album.
Ragion per cui gli IANVA, a tre anni di distanza da “Italia: ultimo atto”, con “La mano di gloria“, terzo full-length in studio, tirano fuori proprio un concept fatto di atmosfere che non sanno di cappa e spada, figuriamoci di dragoni, ma di gesta di ragazzi pronti ad andare alla carica a loro rischio e pericolo, pur di ottenere la tanto agognata giustizia a svantaggio del Combinat, questo il nome della nemesi principale. Una trama intricata che ha un che di cinematografico, non solo nello sviluppo ma soprattutto negli arrangiamenti dei brani, oltre che nelle scelte delle voci narrate. Il dark cabaret di cui si fanno portatori i nostri è anche questo.
Perché, oltre all’introduttiva Tempus Destruendi e una title-track sospesa tra il primo “Matrix” e “V per Vendetta”, c’è sempre lui, Mercy, uomo che ondeggia tra De André e Guccini, sia quando c’è da cantare pezzi come Il bello della sfida ed Edelweiss, canti di fortezze e castelli sospesi tra western e mariachi, che quando si ha a che fare con composizioni che non sfigurano davanti a repertorio morriconiano (Portatori del fuoco), fino alle gocce di un cielo che circonda Alta via e la fisarmonica che accompagna il canto de L’Anarca. Anche gli chansonniers francesi hanno la loro importanza. Il trittico finale, avente come tema il destino dei ribelli, merita una particolare menzione. La cavalcata con influenze tipiche di certe metal ballad Della morte me ne rido che lascia il posto al raggiungimento dell'”Ultima Stazione” (“Tutti morimmo a stento” oggi?), quella dove ai propri occhi appare il gelido vivere tipico del carcere (Nell’ora dell’addio) ha un certo legame con l’attualità.
Ma Mercy è in ottima compagnia, perché fondamentale è anche il contributo di Stefania T. D’Alterio, udibile in tre episodi, la marcia malinconica Sul mio sangue, la maggiormente classica Le stelle e i falò e Canzone dell’eterna aurora, un viaggio nel mondo celtico, più vicino a Loreena McKennitt che a Enya, per usare un eufemismo.
“Ma l’aurora tornerà sempre, forse noi bruceremo con lei. E l’eternità di quell’attimo, è un fiore di fuoco da cogliere“.
Le porte si chiudono. Sì, il Combinat potrebbe essere dietro l’angolo, in quanto “società dell’orrore” di yuzniana memoria. È necessario starne alla larga, ma non fare lo stesso con un disco come questo, forse non adattissimo per determinate occasioni, ma decisamente godibile, che conferma l’atipicità, eppure la validità, di un complesso come quello degli IANVA.
Gustavo Tagliaferri
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