Ben otto anni dopo l’ultimo “Damage”, i Jon Spencer Blues Explosion tornano con “Meat and Bone“. Ebbene, la sensazione che si ricava dal primo (ma anche da ogni successivo) ascolto di quest’album è che il tempo per i nostri si sia come fermato. Ciò può considerarsi per alcuni versi un bene; e per altri, anche no. Ma procediamo con ordine.
Ai più, un titolo come “Meat and Bone” probabilmente suggerirà l’idea di un suono assai spiccio, molto scarnificato, non di rado trucido e diciamo pure sanguinolento. E così effettivamente è. Non che ci sia granché di cui sorprendersi: d’altronde, si tratta degli ingredienti che da sempre caratterizzano i sonori baccanali di Jon Spencer e soci, no? Garage rock, punk, blues, l’isteria psychobilly del canto di Jon Spencer si miscelano a dovere ricreando dunque i consueti stilemi tradizionalmente cari al combo statunitense: tutto insomma procede ampiamente secondo le attese. Purtroppo senza particolari sussulti, però: a dispetto del dinamismo che pure inebria un po’ tutte le sue dodici tracce, i quasi quaranta minuti di questo disco “in carne e ossa” di sussulti non ne regalano poi mica tanti; o perlomeno, non così memorabili. Eppure un’apertura in intenso odore di Stooges come Black Mold lasciava presagire sviluppi decisamente interessanti. Che pure non mancano: Boot Cut sembra sferragliare impazzita e lasciva verso chissà dove (come se la cosa in qualche maniera le importasse davvero) e proprio per questo pare destinata a restare negli anni a venire; la frenesia di Danger e Strange Baby paiono fatte apposta per smuovere le fangose acque (come da copione, visto che di blues, sia pure postmoderno, si tratta) di questo “Meat and Bone”.
Tuttavia, fangose queste acque forse lo sono un po’ troppo poco: Il resto dell’album, infatti, suscita perlopiù l’invincibile sensazione di un’accademia, di una maniera certamente ben confezionate da anni ed anni di mestiere; e tutto scorre, scorre che è un piacere, ma di un piacere effimero e destinato ad essere archiviato in maniera altrettanto fugace.
Così è, se vi pare: ma magari qualcuno gradirà in misura maggiore quello che, a parere di chi scrive, può essere inventariato nel migliore dei casi alla famosa voce “album di transizione”. Verso qualcosa – si auspica – di più coraggioso di un disco che è l’insipido frutto di una mera gestione dell’esistente.
Luigi Iacobellis
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