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Gli Opeth sono diventati ormai, ahinoi, lo spauracchio dei recensori. Dopo “Heritage” le spaccature, sia all’interno della critica che tra i fans, sono diventate insanabili; da una parte chi sostiene che il “nuovo corso” sia talmente geniale da non essere capito dai più, dall’altra chi non riesce ad apprezzare nulla di quanto fatto ultimamente. Tuttavia, a parte questo e non volendo addentrarsi ulteriormente, anche gli Opeth stessi sono riusciti a superare “Heritage”, ad andare oltre. Dopo tre anni di infinite polemiche pubblicano “Pale Communion”, annunciato da Åkerfeldt come più melodico ma, allo stesso tempo, anche più pesante e tendente al metal rispetto al predecessore.
Ed effettivamente così è: dopo una breve introduzione di Eternal Rains Will Come in cui sembra di risentire le chitarre di “Heritage”, ci si accorge immediatamente che anche l’atmosfera generale dell’album è completamente cambiata. Cionondimeno, la tendenza del gruppo svedese – ma soprattutto del suo frontman – si sa, è ormai diventata di tipo tradizionalistico e conservatore; una sorta di fondamentalismo musicale, convinto che la musica degli ultimi decenni si sia sempre più corrotta e che bisogni tornare indietro fino agli anni ’70. Ed è inutile aspettarsi che “Pale Communion” non sia ispirato al prog-rock di quegli anni tanto idolatrato da Åkerfeldt.
Quantomeno quest’ultimo, pur essendo sulla sua stessa lunghezza d’onda, si presenta più caratteristico di “Heritage”, più Opeth e meno anacronistico. Nella parte finale di Elysian Woes, per esempio, sembra di tornare indietro di undici anni, alle sonorità di “Damnation”, e, in generale, l’album è ispirato da un tipo di progressive più moderno, sullo stile dei Porcupine Tree. Inoltre, laddove “Heritage” suonava asettico e sembrava essere un mero esercizio di stile fine a se stesso, “Pale Communion” risulta essere più caldo ed appassionante, arrivando a toccare veri e propri picchi di epicità, come nella chiusura di Moon Above, Sun Below e di Voice of Treason. L’unica e più eclatante eccezione, evidentemente, è Goblin, chiaro quanto insensato tributo all’omonimo gruppo nostrano.
Insomma, a prescindere dai gusti di ognuno, che possano abbracciare o meno certi generi e stilemi, “Pale Communion” ha tutte le carte in regola per essere una vera e propria prosecuzione della carriera degli Opeth, un’evoluzione quasi necessaria e prevedibile dopo tutti i cambiamenti sonori avvenuti da “Orchid” fino a “Watershed”. E ha tutte le carte in regola anche per non suonare come un’opera spocchiosa, studiata a tavolino e pretenziosamente progressive – ogni riferimento a “Heritage” è puramente casuale.
Edoardo Giardina
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