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1 aprile 2016
Non ho mai visto Luca T. Mai dal vivo, ma m’immagino una figura statuaria. Statuaria e minacciosa. Che, a vederla dal sottopalco, in prima fila, diventa ancora più gigantesca e pericolosa. E ancora oltre non appena lo strumento con cui di solito gira armato sui palchi di mezzo mondo, il sassofono, inizia a eruttare lava e lapilli sotto forma di note. Una di quelle figure che quando mancano – soprattutto quando mancano – te ne accorgi, eccome. Perché la loro assenza lascia un doppio vuoto, scenico e sonico. E se a quest’ultimo riesci a sopperire in un modo o nell’altro (leggi: doppio lavoro per il basso di Massimo Pupillo, effettato a dovere per sostituire i barriti del sax), il primo non lo colmi neanche con un ologramma 4D.
Non c’era sul palco dell’Init Luca T. Mai. Motivi non meglio specificati, ma sicuramente seri, lo hanno costretto ad abbandonare il tour nel bel mezzo delle date italiane. È Massimo Pupillo a comunicarcelo poco prima di iniziare: “Speriamo non dovrete mai più rivederci solo in due”. Lo speriamo davvero per Luca, persona disponibile che qualche tempo fa si prestò ben volentieri per una nostra rubrica, a cui va il nostro pensiero. Comunque sia, sin dal primissimo secondo, anche se privo di una delle sue teste, il cerbero conosciuto al mondo con il nome di Zu non ha mancato di latrare l’inferno sul pubblico presente. Come ha scritto su Facebook chi c’era, hanno “spaccato il culo“.
E non c’è sintesi più dannatamente efficace di questa per descrivere quel che è stato in via della Stazione Tuscolana. Perché, è vero che saranno stati solo in due, ma – porca puttana – hanno eretto un muro sonoro talmente spesso da lasciarmi incredulo sul fatto che fossero davvero solo in due. Senza il sax il loro suono ha pagato pegno sicuramente in termini di tridimensionalità, questo è indubbio, ma non in potenza. Meno sfumature, meno gradazioni di colore, ma non meno aggressività. Fino all’ultima nota dell’ultima canzone, una scarica di missili terra-aria si è abbattuta direttamente nei mie canali uditivi. Devastandoli. (Non si fanno prigionieri, amici cari, non stasera). A lanciarli gli stessi due che, fino a un attimo prima, vedevi raccolti nei loro pensieri, tranquilli, come se attorno a loro non ci fosse stato nessuno. La quiete prima della tempesta.
Massimo Pupillo è inginocchiato, ha gli occhi chiusi e il capo rivolto a terra. Sembra quasi in meditazione. Dietro le pelli, invece, Tomas Järmy è come se fosse in trance, lo sguardo perso sulla folla informe. Ma basta un’occhiata d’intesa tra i due per far deflagrare il loro inferno poligonometrico. È veramente un attimo, prima di essere travolti da una scarica sonora di rara violenza. Una roba da resa senza condizioni, tipo il Giappone nella seconda guerra mondiale dopo aver subito le bombe atomiche.
Non chiedetemi però che cosa hanno suonato. Ho iniziato a nuotare nel loro magma sonoro e tanto mi bastava, sapere che ci fosse il magma, e non che forma estetica avesse preso. Un paio di canzoni da Carboniferous, sicuramente, perché laddove mi aspettavo lo sbuffo nervoso del sax, mi è arrivato il suono del basso. Forse hanno fatto anche le mie preferite, Muro torto e Goodnight, Civilization. Forse sì, forse no. Ma, onestamente: importa davvero saperlo? Come dei reduci, ci appuntiamo sul petto anche quest’altra guerra sonora e torniamo a casa, in congedo. In attesa della prossima.
E mentre ci incamminiamo verso il focolare domestico, non possiamo non ricordare l’ottimo compito svolto dai gruppi che hanno preceduto gli Zu. L’ira del Baccano mi ha fatto pensare a un allucinato deserto psichedelico disperso da qualche parte su Alfa Centauri. Eroici, nonostante alcuni problemi tecnici abbiano funestato la loro esibizione. I Surgical Beat Bros invece mi hanno proiettato in una città iperfuturista e ipermeccanizzata, con la presenza umana ridotta ai minimi termini, se non sul punto di soccombere definitivamente in favore di quegli androidi tanto presenti negli scritti di Philip K. Dick.
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