Stasera terzo e ultimo appuntamento al Teatro Grande di Pompei con Le Baccanti di Euripide, adattamento e regia Andrea De Rosa, nell’ambito della rassegna Pompeii Theatrum Mundi.
Ci troviamo di fronte a uno staging spettacolare, al centro sembra un’enorme furgonatura di un autocarro, telonato a specchi, con una sponda posteriore abbassata, un palcoscenico messo in obliquo, e, man mano che entra il pubblico, posti alle rispettive estremità del palco, un’asta con microfono e due attori, Lino Musella, che interpreta Penteo, governante di Tebe, seduto sulla classica poltrona rossa di un teatro, trono dello spettatore più esigente e disteso ai suoi piedi, Marco Cavicchioli, Tiresia, e, a girare sulle prime gradinate, i due messaggeri, interpretati da Matthieu Pastore ed Emilio Vacca, che rappresentano la nostra unica finestra reale nei riti dionisiaci, che raccontano e svelano abilmente la narrazione più scura di quello che succederà a Penteo.
Euripide racconta una storia di omicidio e di disgrazia, degna di una moderna tv cult e il regista Andrea De Rosa attualizza l’episodio in una sorta di festival hard rock, un’attuale Bacchanalia, dove si consuma a volontà ballo, droga, alcool e sesso smodato.
La tragedia inizia con il prologo del giovane dio Dioniso, interpretato da un’efebica e convincente Federica Rosellini, che spiega le complicate circostanze della sua nascita. Sua madre umana, Semele, è rimasta incinta da Zeus, re degli dei. La moglie di Zeus, Era, arrabbiata dal tradimento del marito, convince Semele a guardarlo nella sua vera forma, per cui Zeus le appare come un fulmine, che la uccide immediatamente. Zeus, tuttavia, salvò Dioniso, nascondendolo da Era, cucendo il feto nella sua coscia, fino alla sua nascita.
La famiglia di Semele, però, in particolare sua sorella Agave, non aveva mai creduto alla storia di un bambino divino, convinta che fosse morta a causa delle sue bugie blasfeme, riguardo l’identità del padre del bambino e il giovane dio Dioniso è stato perciò sempre rimproverato in casa. Dioniso ritorna a Tebe, suo luogo di nascita, per vendicarsi sulla casa di Cadmo, uno spettacolare Ruggero Dondi, suo nonno e per difendere la madre.
La grande rock star Dioniso, simbolo della liberazione, il cui erotismo è del tutto concettuale, è vicino all’asta con il microfono e dietro, nel cabinato, le sue fan, le Baccanti, che costituiscono il coro del teatro, le attrici Irene Petris e Carlotta Viscovo e le allieve del teatro Stabile di Napoli, Marialuisa Bosso, Francesca Fedeli, Serena Mazzei, impegnate in un’orgia sfrenata. Le sue azioni eccitano, il suo messaggio emoziona, ma la sua missione è vendetta e si aspetta di essere accettato, ma i tebani respingono la sua divinità e rifiutano di adorarlo, e il giovane re della città, Penteo, cerca di arrestarlo. E si sa che gli Dei sono potenti e non dovrebbero essere messi in discussione e la resistenza è inutile.
Inizia la grande vendetta di Dioniso. Induce tutte le donne di Tebe, meglio conosciute come Menadi, tra cui le zie Agave, Ino e Autonoe, in una frenesia estatica, mandandole sul monte Citerone a ballare e a caccia. I vecchi della città, come il padre di Semele, Cadmo e Tiresia, anche se non sotto l’incantesimo di Dioniso, diventano appassionati entusiasti dei riti Bacchici, si travestono da donna e s’incamminano nei boschi.
Il re Penteo decide di far uccidere tutte le Menadi ma Dioniso lo convince ad andare e osservare i riti, prima di prendere la sua decisione, però deve indossare abiti da donna. Penteo è dubbioso: “Vestito come una donna? Ma sono un uomo!” Alla fine, la curiosità supera la sua paura e sotto una strana trance di Dioniso, si veste e va a spiare le donne che ballano nei boschi, e diventa incredibilmente pazzo, quando vede, tra loro, sua madre, Agave, che lo sbranerà strappandogli arto dopo arto.
La martellante musica techno di sottofondo, che ci ha accompagnato lungo tutto lo spettacolo, s’interrompe quando appare sul palco, seduta su di una poltrona rossa del teatro la bellissima Cristina Donadio (qui la nostra intervista), che con la sua magistrale quanto drammatica interpretazione di Agave, sbalordisce il pubblico. Tra le mani ha la testa di suo figlio Penteo, che, nel suo delirio dionisiaco, crede sia una testa di leone di montagna, e, che, parlando, continua a sbatterla sulla sua vagina, una scena di una pressione scomoda e poco bella.
Suo padre, Cadmo, la porta a ragionare su quanto accaduto, e Agave rendendosi conto della cosa orribile fatta, sconvolta si strappa le vesti da dosso e scappa via, e porta questa tragedia al suo climax.
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