“Extreme Heavy Psych” la dice lunga già dal titolo. La sinistra e vagamente lisergica cover non sembra lasciare dubbi.
I Black Land sono quattro musicisti già ben radicati nella scena underground romana viste le commistioni, le collaborazioni, le amicizie importanti e altisonanti nell’ambiente capitolino e sfoderano il loro secondo esperimento discografico. Effettivamente per quanto il combo laziale cerchi disperatamente di aggrapparsi a scenari doom, quanto emerge dall’ascolto spinge a ipotizzare molteplici influenze ben più evidenti. “Extreme Heavy Psych”, è vero, percorre i binari del doom infarcendolo di buoni spunti psichedelici che, mantenendone i connotati principali, espandono il concetto a qualcosa di ben più acido. Eppure, per quanto si voglia in qualche modo soffocare sotto l’incudine impietosa dei chitarroni iper compressi e delle corde “smollate”, lo stoner c’è e si sente. Anzi, per quanto i passaggi di Psych n. 1 cerchino di esplorare gli oscuri territori regnati da personaggi del calibro dei Candlemass o dai primissimi Cathedral, Holy Weed of the Cosmos (The Great Ritual) e R’n’R Bite si catapultano nella rivisitazione di un classic-rock settantiano pur decifrato in chiave estremamente più deviata.
Non a caso in apertura descrivevo quest’ultima fatica discografica appellandola “esperimento”; l’album si presenta effettivamente come tale, tutto è il contrario di tutto e i Black Land sviscerano questa inclinazione alla ricerca, a una sperimentazione che s’insinua negli stereotipi dell’heavy per scardinarne le basi e, perché no, per ridisegnarne i connotati.
Sembrerebbe quasi un controsenso; muoversi in ambienti ormai quasi sterili, visto che si è già detto tutto, potrebbe rendere la vita se non impossibile parecchio difficile a chi si voglia avventurare. Ci si potrebbe imbattere con facilità nella micidiale tagliola della noia, della ripetitività o, peggio, dell’inutilità. Willer Donadoni e i suoi drughi però sembrano abbastanza immuni a questa sorta di tranello. Del resto l’eredità degli anni settanta è sempre pronta a essere scialacquata e, su questo, ormai ci abbiamo tutti fatto il callo. Certo è che rimane un godibile e fruttuoso esempio di come si possa scrivere in maniera onesta e con un pizzico di voglia di crescere. Un buon lavoro ben corroborato da un’abbondante flebo di suono sempre godibilmente cupo al punto giusto, un abbondante tappeto di chitarre e una sezione ritmica mai sotto tono. Forse l’unica nota dolente (sempre che si possa intendere come tale) risiede nelle linee del cantato; forse un po’ piatte e quel tantino forzate ma, del resto, “Extreme Heavy Psych” guarda alla sostanza, è un album che si vota all’impatto e non ai sofismi dell’ultima ora.
Cecco Agostinelli per Mag-Music
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