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I Caronte vengono da Parma e suonano la musica del destino.
Torrenziali i loro wah-wah di chitarra, con un sound pieno e groove come poche cose ascoltate ultimamente, più ossessiona(n)ti che ipnotici, girano e rigirano intorno a riff scolpiti nell’eterna roccia del metal classico da cult-band lontanissime come Witchfinder General e Angel Witch ma anche da consimili esponenti del doom storico come Trouble, Obsessed e Saint Vitus (il culto definitivo), in effetti influenze più che obiettive nel bilancio del loro sound.
Dopo un’annata passata ad ascoltare gruppi sludge inscimmiati di brutto, finalmente la gradita scoperta di un gruppo la cui lentezza pachidermica non coincida con ronzii e morte sociale. I Caronte (nome molto evocativo ma chissà perché ancora poco sfruttato) colpiscono per la devozione totale ai dettami del genere che si concretizza però non in un tecnicismo epigonico ma, al contrario, in un sanguigno e sanguinario tributo alla classicità del metal più genuino. Liberi in quello che è in realtà il sortilegio inesorabile del doom, ovvero la circolarità dei riff, il blues maledetto, l’opprimente pesantezza dello spleen traghettato nel corso degli ultimi decenni da Birmingham A.D. 1970 un po’ in tutto il mondo, e – ehm – il superamento delle barriere della percezione, producono un EP godibilissimo che ormai fa parte della mia playlist per le situazioni pre-party del sabato sera, caratterizzato inoltre da una produzione polverosa vecchio stile utile a risaltare certa spiritualità maledetta e maledettamente anni ottanta, come a ricordarci di quando birra, Metal e adorazione del Dimonio erano un tutt’uno.
Capelli unti, birre a basso costo, croci d’ordinanza e corna come se piovessero, inni freak per i figli della nuova umanità (i famosi “children of the grave”) e altari innanzati al dio del metallo per un disco che spacca in due il corpo e l’anima di coloro che sanno che da certi brutti vizi è difficile venirne fuori (sia che si parli di metal che di sostanze psicotrope).
Tre tracce medio-lunghe (si viaggia sui sette minuti a pezzo, ehm, a inno) per un EP che di poco non sfiora la lunghezza di un “Reign in Blood”, insomma. Giusto per dire cos’è il doom.
Grande botta, gran gruppo ed un cantante che è come un Lee Dorrian baritonale (o un Danzig più ortodosso) ma più intonato e con più voglia di vivere. Difficilmente schioderete dalla mente un ritornello pazzesco come quello della title-track.
La band ha suonato con gli Electric Wizard: Satanasso è ancora con noi, insomma.
Nunzio Lamonaca per Mag-Music
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