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Lo stivale italiano non sarà certo ricco di deserti nei quali sfrecciare a duecento all’ora su una bella muscle car. Ma nonostante questo la penisola tricolore è dotata di un humus musicale ricco, capace di dare i natali a ottimi progetti stoner. Come quello dei Veracrash, che in chiusura del 2012 tornano in campo con “My Brother the Godhead“, secondo lavoro dopo la buona prova di “11:11” del 2009.
Rispetto al lavoro precedente, il nuovo disco segna un passo avanti, e le differenze si sentono non poco: dite addio al riffing serrato e ricco di armonie in stile Queens of the Stone Age, e accogliete a braccia aperte un sound decisamente più pesante e doomish. Il cambio di marcia si manifesta già dalla opener Lucy, Lucifer, per poi scorrere lungo tutto l’album in un susseguirsi di voci tetre e riff taglienti, sostenute da una sezione ritmica che più pestata non si può. Se la title track riporta alla mente le sensazioni claustrofobiche dei Nevermore di “Dreaming Neon Black”, brani come Obey the Void sfiorano i toni malinconici degli Opeth di “Deliverance”/”Damnation”. Spazio anche per l’ambient in Trees Falling Upwards, insieme a classici pezzi di stampo duro e puro come A Blowjob from Yaldbaoth e We Own You, Bitches.
A impreziosire quest’album, oltre alla produzione di Niklas Kallgren, chitarrista degli svedesi Truckfighters, c’è anche la batteria di Oscar Johansson dei leggendari Witchcraft e la voce di Davide Straccione, direttamente dai pescaresi Zippo.
In poche parole, con questo lavoro i Veracrash dimostrano al mondo che gli italiani non sono solo pizza e mandolino, ma ci sanno fare anche con le distorsioni: “My Brother the Godhead” è un disco che segna una decisa maturazione di questa band nostrana; ora che hanno scavato il loro personale solco nel terreno, non gli resta che seguirlo, continuando a sfornare tanta altra buona musica. Il deserto lasciamolo pure ai californiani.
Dario Marchetti
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