Honey Boy: Le nostre considerazioni sul film

Metti un bambino avviato verso una brillante carriera da attore televisivo che viene seguito e gestito dentro e fuori i set dal padre. Sembra l’inizio di una bella storia raccontata con i tempi e la carica emotiva di un lungometraggio.

Se il padre, con cui vive in un motel ai margini della città, è un veterano, separato dalla moglie, ex detenuto, ex clown da rodeo, alcolizzato e con un carattere irascibile, si capisce che non stiamo parlando di una storia di successi, autografi, e premi.

È la vera vita dell’infanzia burrascosa di Shia LaBeouf, una baby star destinato a diventare uno dei giovani attori più ricercati da Hollywood per il suo eccellente curriculum. I traumi infantili, fisici e psicologici, causati dalla convivenza con questo padre a dir poco stravagante, offuscano la sua condotta nella vita privata e lo costringono a fermarsi e a seguire un lungo periodo di riabilitazione.

La scrittura della sceneggiatura di Honey Boy da parte di Lebouf diventa allo stesso tempo un’autobiografia e un percorso doloroso per affrontare il suo passato e superare il periodo buio del suo rapporto padre-figlio. Non solo: LaBeouf interpreta il padre nel film, incarnando la sua imperfezione e umanità per chiudere il cerchio. Grazie all’abile regia dell’amica e documentarista Alma Hare’l, la storia si arricchisce di interessanti particolari.

La figura del padre è ben caratterizzata, a tratti simpatica, rimandando l’immagine di un uomo che a suo modo vuole riscattarsi dalla situazione di degrado in cui vive e che ispira ad incoraggiarlo a diventare un uomo migliore piuttosto che a odiarlo. La fatica fisica e mentale con cui il giovane LaBoeuf combatterà gli aspetti del carattere e della personalità plasmati dal padre buca lo schermo e arriva diretta allo spettatore come un pugno in faccia improvviso. Anche i personaggi minori della storia in realtà non sono secondari in quanto completano perfettamente il mondo che è stato creato per far vivere i due protagonisti.

E infine colpisce che la maggior parte dell’azione del film si svolge nella casa motel o nel centro di riabilitazione. Nient’altro di diverso per rendere quei luoghi familiari e vissuti e permettere allo spettatore di porre l’attenzione sulle emozioni. E anche se vi sembrerà strano, il dolore di questo rapporto genitoriale malato raccontato in un mondo di realtà e fantasia produce poesia.

Questa continua dicotomia si percepisce in tutte le scene del film e anche in sala: una parte degli spettatori è andata via dopo i primi dieci minuti di proiezione e altri hanno pianto all’uscita. Io ero tra questi ultimi!

Voto 5/5

Nelle sale dal 5 marzo 2020

Maria Rosaria D’Apice per cM News



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