Quando la ricerca spasmodica di “wattaggio” cruento si scontra con quella che potremmo definire una sorta di creatività sinistra e nebuloide, è normale immaginare e materializzare un’esigua manciata di nomi. Se poi, nell’amalgama, si scorge quella velata propensione a incanalare e trasformare energia pura in atmosfera e pathos palpabile, quella manciata di nomi comincia irrimediabilmente a scremarsi per sviscerarne uno: Neurosis.
L’oscura e diabolica formazione partorita, anzi, rigurgitata dai sobborghi di Frisco posiziona l’ennesimo monolite in una Stonehenge costruita sugli imponenti venticinque anni di attività. Von Till e la sua ciurma ci regalano un vero e proprio live ufficiale, registrato durante la performance al prestigioso “Roadburn”.
Nell’epopea dell’iperproduzione di plastica, dove processori digitali, compressori multibanda, trigger e campionamenti sembrano aver monopolizzato gli studi di registrazione, mostrarsi “senza veli” con plettri, bacchette e puro sudore sulle corde rappresenta una scelta lodevole e coraggiosa al tempo stesso o, se non altro, un manifesto di sicurezza e rodata esperienza. In “Live at Roadburn 2007”, i Neurosis vanno oltre. In un qual senso dimostrano e pavoneggiano una simbiosi “band – palco“ che si dissolve come elemento naturale nelle caustiche atmosfere di vago aroma “hard – sperimental – psych – doom – core” (e chi più ne ha più ne metta, ma non basteranno mai…).
Sul contenuto, poco c’è da aggiungere: un’esecuzione esemplare, brani articolati, intrisi di magma che ostentano quella classica costruzione machiavellica che tanto ce li ha fatti ammirare fino ad oggi. Forse neppure i Chrome (ma di ritorno da un weekend nell’Area 51) sodomizzati dai Melvins più corrosivi e “cingolati” avrebbero potuto concepire di meglio.
Come auspicabile, “Live at Roadburn 2007” è un album intelligente dove i sei Californiani proiettano malinconiche visioni, vortici claustrofobici che rapiscono e lacerano al tempo stesso. Distill è l’emblema di tutto ciò; un’altalenante ballad elettrica a metà strada fra i Dazzlin Killmen più ostici e un “Killing Technology” dei Voivod suonato a sedici giri, il tutto sepolto in estreme atmosfere dark. Un disco che varrebbe la pena di affrontare fosse solamente per una stratosferica A Season in the Sky, il cui lungo e struggente intro potrebbe sembrare opera di un Nick Cave dopo un’overdose di lava incandescente. Le nove tracce si susseguono senza cali d’intensità emotiva calpestando aridi territori doom – psichedelici, incollando all’ascolto. Non c’è tregua alcuna, le cavalcate “onirico-noise” spuntano come geyser dissacranti dove chitarre sature e dissonanti incorniciano una sessione ritmica pachidermica; gli oltre dieci minuti di The Doorwey parlano da soli.
Consigliatissimo.
Cecco Agostinelli per Mag-Music
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