Un lungo respiro, si chiudono gli occhi e la musica comincia ad entrare dentro i polmoni. La mente abbandona le riflessioni quotidiane e deraglia dolcemente verso nuove dimensioni.
Ha ancora senso parlare di space-rock nei prima anni Dieci del XXI secolo? Forse sì e i Pineda, con il loro omonimo album di esordio, ce lo dimostrano ampiamente dando vita a sei brani che scorrono con una spinta propulsiva energica che non perde mai di contenuto musicale; da Give me some welldressed freedom che verte verso il rock psichedelico e lisergico fino a Twelve Universe dove si riescono a percepire influenze persino di sonicyouthiana memoria, passando per Domino, l’emozionante seppur “breve” Human Behavour, la cavalcata ritmica di Touch Me e If god exists, he is in the deep / Lost in your arms while outside in all the world it’s raining, binomio sonoro che è anche il perno dell’intero lavoro.
I tre membri del gruppo, Marco Marzo Maracas alle chitarre, e gli ex Moltheni Umberto Giardini alla batteria e Floriano Bocchino al piano Fender Rhodes, dimostrano di avere doti eccellenti in fase di creazione e anche la produzione di Antonio “Cooper” Cupertino sembra aver agito in maniera positiva nel risultato finale.
I Pineda suonano tremendamente seventies pur rifacendosi al più recente post-rock dei Mogwai o degli Explosions in the Sky. E il risultato di questo incontro-scontro non stanca; le divagazioni sonore e temporali di questo album non risultano mai già sentite o banalmente ripetitive, grazie alle già citate doti creative dei tre.
Tuttavia il timore è che questo album non riuscirà ad essere ricordato fra quattro-cinque anni, soprattutto a causa della pigrizia del pubblico italiano, anche di quello cosiddetto indipendente. Ma forse ai Pineda sta bene così, e la loro proposta musicale verte proprio in questo senso.
Andrea Russo per Mag-Music
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