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Con quest’album ci troviamo all’ascolto della seconda magia dei Desert Wizards, dove il padrone della scena rimane l’hard-rock psichedelico. Quest’ultimo assume sembianze cupe e funeree, risvegliando le sonorità del doom settantiano, ed è forse questo il loro trucco migliore: plasmare l’attività immaginifica di chi ascolta, con estrema semplicità ed efficacia, facendo assaporare quel leggero stato di inquietudine che pervade l’intero lavoro.
Sin dalla prima traccia i ragazzi non vogliono destare dubbi riguardo il loro intento, trascinandoci in questa corsa sfrenata per fuggire da ciò che ci attanaglia. Freedom Ride si sussegue in modo travolgente e dinamico, con un intermezzo caratterizzato da un tappeto d’organo, che sostiene un groove di basso degno dei connazionali Goblin. Tutto sembra placarsi con Babylonia: le voci che all’inizio ci ammaliano ci trasportano in quella realtà psichedelica che si fa più preminente in Back to Blue, dove la nostra anima può aleggiare in una dimensione che non conosce tempo e spazio, per poi precipitare nel vuoto. La vera essenza dell’album viene espressa in Black bird, brano in cui troviamo un tratto pronunciato di rock psichedelico, con delle forti sfumature che appartengono al doom. Tutto sembra essersi placato, lasciandoci soli con un leggero stato d’ansia, quando invece ritorna la stessa scarica adrenalinica, già sperimentata durante la prima traccia, con Burn in the Sky, che ci rimanda a quei suoni peculiari dei Deep Purple, colorati con note spettrali dai Nostri. L’album si conclude con una ben fatta Childood’s End, cover del gruppo psichedelico per antonomasia: i Pink Floyd.
In questo lavoro si notano chiaramente le ombre di grandi gruppi da cui il quartetto italiano attinge, come Blue Cheer e i Doors, per non parlare dei Black Sabbath e dei già citati Pink Floyd. Anche se a volte la loro musica può risultare ridondante e anacronistica, i Desert Wizards riescono, con forte personalità, ad ammaliare e far sognare.
Andrea Salvioni
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