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Nel giro indipendente italiano si è sofferto per molto e molto tempo il mancare di realtà in grado di poter saziare sia i più attenti ed esigenti estimatori, che quella cerchia più sempliciotta e maggiormente abituata a sonorità proprie del mainstream. Pronti a fare il “salto mediatico”, i Non voglio che Clara riflettono a tutto tondo considerazioni di questo tipo, ancor di più dopo il nuovo, bellissimo “Dei cani“. Cogliamo l’occasione per porli giusto qualche domanda.
– Ho immaginato “Dei cani” come un film. I titoli di testa con sottofondo La mareggiata del ‘66, il “secondo tempo” che inizia con L’estate e La stagione buona nei titoli di coda. Nel mezzo, una struggente storia d’amore con i suoi personaggi e le loro situazioni. E tu Fabio, immagini mai i pezzi dei Non voglio che Clara in un contesto cinematografico?
– L’immaginario cinematografico è sempre stato presente nella musica dei Non voglio che Clara, anche aldilà dei riferimenti dichiarati, come in Cary Grant o Il dramma della gelosia. Inoltre il cinema, soprattutto il cinema italiano, porta con sé un bagaglio di musica bellissima. Penso non solo Morricone e Rota , ma anche i vari Umiliani, Piccioni, Ortolani, costituiscono un repertorio davvero notevole dal quale prendere ispirazione.
– Senza nulla togliere agli altri, sembri essere la colonna portante dei Non voglio che Clara (probabilmente grazie ad una certa attitudine cantautoriale), come tra l’altro avviene in progetti simili ai vostri. Quindi, oltre che nei testi, dove il tuo zampino risulta indispensabile?
– Il lavoro di una band è fatto di equilibri anche quando l’apporto in sede di composizione risulta squilibrato, per cui se da una parte mi risulto essere il pilastro del gruppo, con le mie composizioni, dall’altra il progetto si completa proprio grazie all’apporto degli altri componenti.
– Quest’ultimo album ha un sound molto più corposo, più denso, decisamente più elettrico rispetto ai precedenti. È una scelta vostra, sempre se di scelte si può parlare, o è soprattutto merito di Giulio Ragno Favero? Produttore, appunto, dedito a progetti molto più “cattivi”.
– “Dei cani” è un disco più elettrico e compatto rispetto ai precedenti principalmente perchè c’è stato un maggior lavoro in sala prove, nell’intento di realizzare un disco che fosse più semplice da portare su di un palco, con un impianto strumentale più tradizionale.
L’intervento di Giulio ha inciso sicuramente molto nel suono del disco, e in modo assolutamente positivo, senza tuttavia snaturare le nostre intenzioni.
– Precisamente, cosa si vuole rappresentare con la figura dei cani? Rapportandola magari al contenuto concettuale dell’album.
– Con Majakovskij ho chiuso un po’ il cerchio rispetto ad una idea che mi ronzava in testa. Complice anche il lavoro di Laetitia Calcagno che abbiamo scelto come copertina prima che il disco fosse concluso. La figura del cane rafforza un aspetto del disco che nei testi traspare solamente, ovvero il rapporto fra il protagonista della storia e il mondo circostante. Viviamo in un periodo in cui valori e modelli tutti da discutere vengono usati e imposti come strumento politico. Il cane Majakovskijano è l’emblema dell’individuo che non si riconosce nella società in cui vive.
Davide Ingrosso per Mag-Music
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