[adsense]
Sembrano perfetti, questi Heroin in Tahiti, per argomentare ancora sul presunto stato di fermento musicale di una certa fetta, spesso underground, dell’Italia; quell’Italia che non si accartoccia su se stessa ma cerca di creare scene meritevoli e dal respiro internazionale (o forse ci riesce spontaneamente), magari con la capacità di attirare attenzioni autorevoli e non indifferenti. E, infatti, del duo romano in questione pare essersene accorto una figura di spicco come Simon Reynolds, per dar legna da ardere al fuoco già sostanzioso della sua “Retromania” e dell’hauntology (ne parlavamo qui, sfruttando l’occasione più ghiotta dello scorso anno).
A un orecchio ben attento, il debutto “Death Surf” non potrà che evocare immagini intense e inconsuete che, sommate alle deliranti visioni dei vari Father Murphy, Cannibal Movie, Mamuthones e a mezzo catalogo Boring Machines (l’etichetta che licenzia proprio gli Heroin in Tahiti), fanno pensare a una sorta di hauntology all’italiana per nulla semplice d’intendere e d’ascoltare, ma decisamente appagante. L’impalpabilità di un album come “Death Surf”, perso com’è tra dimensioni oppiacee, spirituali e sciamaniche, è senz’altro il caso perfetto per plasmare un esempio tutto italiano di recupero di suoni e immagini persi nei meandri della memoria collettiva. I rimandi a un Morricone sotto acido (scusate il tono blasfemo) dai suoni capaci di essere spietati, il “dronebilly” (usando una loro stessa definizione) scaturito da chitarre in pieno riverbero, la valanga di synth che formano un tappeto scivoloso, drogato fino al midollo, il mood che ricorda il Piero Umiliani più astratto e polinesiano; tutti elementi che, messi insieme accuratamente, formano un lo-fi western sentito a modo nostro, decadente e in cerca di una liberazione dall’atmosfera funebre cui pare destinato.
Se proprio vogliamo mettere su un paragone che indubbiamente stuzzica (sperando di non annoiare nessuno), si può pensare agli Heroin in Tahiti come a una sorta di Peaking Lights al netto del dub, dell’impianto ritmico e delle voci, magari virati spiaggia tropicale desolata, paradossalmente senza natura. Inutile citare un pezzo o l’altro, e i motivi sono facilmente intuibili; voi fate girare “Death Surf” e fatevi due conti su quello che state ascoltando e su dove riesca a portarvi, tutto qua.
Davide Ingrosso per Mag-Music
[adsense]
0 comments