[adsense]
È il sedicesimo gruppo che recensisco che porta nel nome la parolina magica “Black”. ed è pure uno di quegli ormai pletorici gruppi che ricorre alle produzioni novantiane per esaltare una proposta estrema che, negli ultimissimi anni, decine di musicisti hanno in qualche modo rinnegato per andare ai vernissage e ai cocktail party di chissà quale tatuatore in voga.
Lo dico subito: sulla discografia dei Black Breath ci passo volentieri avanti e per moltissime ragioni. Una di queste potrebbe essere che quando hai consumato “Left Hand Path”, “Clandestine” (gran disco, uno di quelli che vive e riluce all’ombra di altre produzioni per i suoi tenerissimi difetti. Ci torneremo) e soprattutto “Wolverine Blues”, che bisogno hai di un pastone da peperone ripieno come quello proposto dai Black Breath? Inoltre le carte si scoprono in tempo zero, quasi: chitarre prodotte con la precisione filologica di chi Tomas Skogsberg dei Sunlight Studio lo ha eletto principale responsabile dell’ondata death europea di fine anni Ottanta. Ma non solo: la replica alle urla sguaiate del Petrov post-“Left Hand Path”, i riff a zanzara che hanno reso grande il death del vecchio continente, la batteria secca e vintage. Sì, ma vintage ADESSO, capite? È un gioco troppo bello e devoto per essere realistico. Non mi stupirei se all’immagine birraiuola che la band porta con sé si sostituisse invece una realtà fatta di tenerissimi nerd vegetariani, collezionisti fino al midollo. Ma loro sono di Seattle e, lo sanno tutti, gli americani in quanto a ricezione e riappropriazione delle innovazioni europee sono sempre in prima linea. Per questo assurdo motivo (ma è di queste piccolezze così naturali che si nutre il metal) è buffo, grottesco ma pazzescamente adorabile che un gruppo si differenzi tanto da un panorama contemporaneo fatto di muscoli tesi e suoni plasticati, ma finisca per essere identico a suoni di vent’anni prima. A pensarci c’è da stare male e non solo per l’abuso di birra. Ma, superata la spocchia, ci si tuffa e rituffa volentieri nel mare sudato del mosh. E così sia.
Il gioco dura piacevolmente quanto propone il minutaggio del disco, ed è godibile scorrere tra le dita un booklet che ha quel layout puzzone e amatoriale fatto di foto incorniciate che manco “The Number of the Beast” dei Maiden aveva. Ma la botta la dà la copertina prima di tutto: un tributo silente ma consapevole al metal più radicalmente genuino degli anni Ottanta/Novanta, un orrendo e pacchianissimo martello che se non vi rimanda almeno ideologicamente alle stupide copertine dei temibili Anvil (altro gruppo minore assolutamente da riscoprire, autentica spremuta di tutti gli umori fetenti del vero metal. Ci torneremo pure su questo) non avete capito un cazzo di niente.
Il gioco è fatto tutto così: siete disposti a sorridere sotto i baffi tacendo e annuendo davanti ai mille rimandi che la band propone? Siete disposti a fingere con la distanza ironica di chi vent’anni non li ha più eppure ancora non rinuncia a cucirsi le toppe sullo smanicato? Siete disposti a fingere che dietro i cedimenti strutturali della band (booklet rozzo, copertina rozza, produzione rozza) ci sia in realtà uno spin doctor di tutto rispetto come Kurt Ballou? È un po’ questo il disco. Bellissimo, tra l’altro.
Aggiungo solo che quando la band vuole, lascia stare un po’ i santini degli Entombed e Dismember che si porta appresso e si riappropria del sound che conosce e produce con più sincerità imprimendola vera svolta: autentiche bordate tra thrash e crustcore (chi lo sa bene ricorda che anche Dismember ed Entombed si nutrivano di hardcore, ma questo è un altro discorso) e vocalizzi che sono troppo tesi e rantolanti per non ricordare che fuori della cornice che loro descrivono c’è tutto un panorama di gruppi metalcore con i quali è difficile persino stringere rapporti per non rimanerne invischiati.
Anche solo due mesi fa mi sarei rifiutato di accettare un compitino così pulito ed epigonico. Oggi è quasi un disco da top five.
Nunzio Lamonaca per Mag-Music
[adsense]
0 comments