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Decimo album per la band di Chicago capitanata da Sam Prekop, giunta quasi alla soglia dei vent’anni di attività (il primo disco, omonimo, è infatti del 1994). Formatosi in piena epoca post-rock (il batterista della band è John McEntire, ex Tortoise), il gruppo si è ritagliato uno spazio nel panorama pop rock internazionale, mescolando tessiture chitarristiche e ritmi serrati di batteria con l’uso loop e sintetizzatori. L’approccio, come chiarito dal leader, è quello della sperimentazione applicata al pop, cui si aggiunge una produzione sempre impeccabile, che rende l’ascolto dei brani fluido, scorrevole e, nei momenti migliori, molto gradevole.
Un disco come “Runner“, in cui molti dei brani sono stati creati originariamente da Prekop al sintetizzatore e poi rielaborati nello studio di McEntire, non fa eccezione a questa regola portata fieramente avanti dalla band. I dieci brani sembrano allinearsi sostanzialmente lungo due linee musicali: da una parte piccole cavalcate rock incalzanti, vagamente sonicyouthiane – senza però virulenze noise – (l’iniziale On and On, le convincenti Skycraper, Neighbors and Township, Pacific e New Patterns). Dall’altra un pop di sapore elettronico, ritmato e melodico (Harps e The Invitations), che nella finale The Runner si fa più soffuso e malinconico. Esattamente a metà si collocano forse i momenti meno ispirati del disco, A Mere e Harbor Bridges, indecise mescolanze tra suoni acustici e accenni elettronici.
Pietro Ressa
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