[adsense]
È un gradito ritorno quello di Luca Morino, fondatore insieme con Fabio Barovero dei Mau Mau. Era il lontano 2006 quando nei negozi appariva “Dea”, ultimo lavoro firmato dal gruppo torinese. Da allora ne avevamo un po’ perso le tracce. Almeno musicalmente parlando, perché l’autore di Sauta rabel, Balon combo e La ola è un attivo organizzatore di eventi, oltre a curare una rubrica per Torino Sette, l’inserto del venerdì de La Stampa. Nei negozi dallo scorso settembre, “Vox Creola” rappresenta il suo esordio solista, firmato come Morino Migrante.
Com’è lavorare da soli? Qual è la differenza tra il lavorare come solista e il lavorare in un gruppo?
Praticamente, la grande differenza è stata che, a livello compositivo, ho lavorato da solo, prendendo una direzione che nella mediazione con Fabio (Barovero, ndr) non era possibile, perché – giustamente – lavoravamo insieme sulla parte musicale-compositiva. Penso di aver cambiato molto il mio modo di comporre, in una maniera in cui il testo ha ora più importanza. L’evoluzione della melodia non è data semplicemente dallo spazio che ha a disposizione perché magari si decide che la strofa dura otto misure. Lo spazio è più libero ed è legato molto di più a quello che invece il testo narra. La struttura della canzone è data dal testo, piuttosto che da uno schema più musicale. E questo ha fatto sì che si siano evolute le melodie, si siano evolute le strutture. Se vogliamo, a discapito di un sound molto chiaro: perché i Mau Mau, soprattutto nei primi album, hanno avuto un sound sempre molto definito, chiaro, che ci ha contraddistinto nella metà degli anni ‘90. Ma quel sound lo ottiene soltanto in quel momento storico, con quelle persone, con quella conoscenza e capacità musicale. Nel frattempo, la consapevolezza musicale è aumentata tantissimo: certe cose che un tempo sembravano fresche perché lo erano, adesso mi sembrerebbero già fatte…
La gestazione dell’album è stata, usando tue parole, “parecchio lunga”. Quali sono state le difficoltà – se di difficoltà si può parlare – incontrate durante il cammino che ha portato a questo lavoro?
In realtà non sono state difficoltà. È stata una scelta ben precisa, quella di prendermi un tempo più lungo. Innanzitutto per poter scrivere più di quanto non sia effettivamente finito nell’album. Forse, per la prima volta in venti e passa anni, la produzione dell’album non rispecchiava l’ammontare di tutte le composizioni, ma loro una selezione. E questo, ovviamente, porta via del tempo. Poi, volevo che le composizioni fossero autosufficienti: le ho provate a suonare dal vivo chitarra e voce in un sacco di piccole situazioni. Anche questo ha portato via tempo. Però ha fatto sì che, arrivati in studio, non ci fossero delle problematiche compositive da risolvere, come alcune volte mi è capitato in passato.
Avevi già abbozzato le idee sugli arrangiamenti delle canzoni prima di trasferirti con il Combo Luminoso nelle Langhe?
Sono un po’ evolute. In origine la mia idea era di fare un disco se non roots, comunque molto impostato sulla musica suonata. Pensavo di dare un taglio più crudo ai suoni, un po’ meno definito e un po’ più ruvido. Invece, alla fine, l’arrangiamento si è evoluto parecchio, e quindi il risultato finale è molto più morbido di quello che mi aspettavo. Più morbido, ma anche più rotondo. L’evoluzione è stata in quel senso. Ed è stata un po’ grazie al lavoro con Valcurallo, con cui più che gli arrangiamenti ho plasmato le composizioni dopo averle definite: abbiamo studiato come articolare meglio le strutture dei brani, per rendere più fluente lo scorrere delle parole; e quindi i testi, non tanto nei contenuti quanto nei suoni delle parole. E poi il fatto di aver – per scelta – voluto tantissimi musicisti come ospiti, alla fine ha fatto sì che gli arrangiamenti fossero più complessi, più articolati di come pensavo all’origine.
La band che ti accompagna dal vivo è formata da Cato Senatore (basso, già membro di Africa unite e Bluebeaters) Beatrice Zanin (violoncello, percussioni e cori), Yehudi Canalìa (batteria e percussioni), Fabrizio Viscardi (chitarra, già con De Gregori) e Michele Pachelo (programming e scratch). Ci parli invece dei musicisti che hanno impreziosito “Vox Creola”?
La band è una selezione tra i musicisti che hanno partecipato anche alle session nelle Langhe. Uno dei più importanti è Kamod Raj, il percussionista indiano che suona il tabla, strumento che ha dato un connotato forte ai brani in cui è stato inserito. Poi un altro personaggio molto interessante è Eusebio Martinelli, che in un paio di pezzi partecipa con la tromba: un musicista molto bravo. Ma cosi come lo è Edoardo De Angelis che ha suonato i violini. Insomma, alla fine, molti di quei musicisti non sono potuti entrare nel gruppo perché già essere in sei, in questo momento, è troppo da un punto di vista strettamente logistico-economico. Invece, dal punto di vista della necessità musicale, tutti hanno svolto un grande lavoro. Così come Marco Perona, grandissimo chitarrista di flamenco, che ha suonato la chitarra classica ne La salvezza. Queste partecipazioni hanno sicuramente impreziosito “Vox Creola” perché non ce n’è stata nessuna superflua, compresa la voce di Emiliano (dei Linea77, ndr) in Sebastien.
E la voce femminile in Vajassa?
È di Loredana Lanciano, una mia storica amica che fa l’attrice e la cantante e lavora in Francia, ad Angers. Non è la prima volta che collaboriamo insieme, lo abbiamo fatto anche con i Mau Mau. Loredana ha questa voce molto popolare, che si prestava molto bene al personaggio che volevo rappresentare. Abbiamo lavorato usando tutte le possibilità che i mezzi tecnologici ci offrono: lei ha registrato le tracce ad Angers, e poi me le ha mandate.
Si è trattato di partecipazioni mirate, nel senso che già sapevi chi volevi e dove, o è stato un work in progress?
Nella pre-produzione, mentre lavoravo e scrivevo, mi facevo delle idee su chi potesse partecipare. Quindi, ho scelto in primis degli amici che fossero validi musicisti, senza inseguire a tutti i costi l’idea di un ospite “famoso”, perché non era quello l’obiettivo del disco. Di solito, si tratta di stratagemmi per far notare di più l’album. Si può fare, a volte è anche divertente e piacevole, però non era quello che cercavo.
Veniamo alla domanda più originale. Ascoltando il disco ci ho sentito, a livello spirituale, l’ultimo disco di Joe Strummer con i Mescaleros, “Streetcore”. Se dovessi citare un tuo punto di riferimento, musicale e non, il nome di chi faresti? Pasolini è, ovviamente, escluso.
I Clash assolutamente tra i primi cinque, soprattutto i loro lavori degli anni ‘80, “London Calling” e “Sandinista!” Proprio con Sandinista! hanno segnato una svolta nella musica diciamo moderna: è un album che metto al top, che ascolto sempre, che conosco benissimo. Poi i Talking Heads, un altro gruppo fondamentale. Soprattutto quelli più ritmici di “Remain in Light”, un’altra pietra miliare degli anni ‘80. Poi sicuramente Tom Waits. Ma anche artisti e cose un po’ più oblique, tipo Gatto Barbieri. E Miles Davis, assolutamente. Oppure, parlando di musica classica, Schubert. Proprio la classica è stata la nuova scoperta degli ultimi due o tre anni: l’ascolto da sempre, ma mai prima d’ora con quest’attenzione e analisi. Se poi vogliamo fare un nome italiano, De Andrè: perché il suo modo di scrivere è un punto di riferimento per i miei testi. Un altro è Modugno. Più recentemente, devo dire che mi mancano dei punti di riferimento altrettanto forti come questi che ho citato, perché ho come l’impressione che il mondo musicale si sia evoluto verso un riciclaggio d’idee che già c’erano, senza aggiungere molto di proprio.
Passiamo al discorso linguistico. Quando mi sono innamorato dei Mau Mau, mi sono innamorato anche di un dialetto molto lontano dal napoletano, il mio vernacolo appunto. La vostra carriera come Mau Mau, fino al tuo “Vox Creola”, ha visto un progressivo abbandono del torinese per la scrittura dei tuoi testi: come mai?
Era un’urgenza creativa, innanzitutto, una cosa che è venuta con molta naturalezza. Ma anche una reazione alla moda, molto forte a metà anni ’90, del cantare in dialetto: non mi piaceva, sebbene anche noi Mau Mau avessimo contribuito a crearla. Anche perché abbiamo scritto un sacco di canzoni d’italiano che equivalevano o superavano, dal punto di vista della composizione, quelle in dialetto dei primi tempi. Allo stesso tempo però non volevo neanche che sembrasse solo una moda anche per noi, l’uso del dialetto, per cui ho continuato a scrivere delle canzoni in piemontese con una frequenza però molto più bassa. Fino ad arrivare a “Vox Creola” in cui, ancora una volta, ho voluto sancire il fatto che il dialetto è un mio elemento di conoscenza e posso continuare a usarlo così come facevo all’inizio del mio percorso artistico. Ovviamente, poi, ci sono delle canzoni che si sprigionano assolutamente meglio in piemontese, altre no… in realtà, obiettivamente, quello che vale nella scelta sulla lingua è come mi viene. A tavolino non ho mai stato deciso niente in questo senso. As dis non poteva che essere cantata in dialetto, in quanto è ambientata nelle Langhe. E poi ha delle coloriture di parole che sarebbe stato troppo difficile rendere in italiano senza fare dei giri di parola che avrebbero diminuito la loro forza.
Non c’è stato anche un ragionamento del fatto che il dialetto si sposasse bene, secondo me, su strutture musicali che sono arabe?
Sì, ovviamente, ha influito molto anche questo. Le parole in dialetto non hanno la sillaba con la vocale alla fine di ogni parola, e quindi ti permettono di mantenere delle note sospese in una maniera molto più musicale.
Come monicker hai scelto Morino Migrante. Però questa tua anima zingara è ben ancorata a Torino. Com’è da musicista il rapporto con la tua città?
Viaggiando molto hai una percezione di casa tua anche un po’ differente: ti muovi così spesso che non hai voglia di andartene definitivamente, ma torni sempre. E ogni volta che torni, ti radichi un po’ di più. L’album nello specifico è stato molto pensato in questo senso: nel senso di guardare il mondo, vivendolo però in uno spazio piccolo. Torino, e il Piemonte in misura minore, sono stati molto presenti come immaginario, ma anche come luogo di provenienza dei musicisti che hanno partecipato al disco. Di fatti, sono rari quelli che vengono da lontano. Forse Eusebio, che abita in Emilia-Romagna. Tempo fa prendevo di più in considerazione l’idea di trasferirmi da un’altra parte. Da un po’ la vedo in un’altra maniera. Vedo il viaggiare come un flusso continuo, come un vivere nel luogo in cui sono andato, e non come “un vado in quel posto e poi torno“. Un flusso continuo di panorami, di scenografie diverse che mutano intorno a te.
Dal vivo come proporrete l’album?
La presenza forte di quest’album è data dalla chitarra elettrica suonata da Fabrizio Viscardi. Nei dischi dei Mau Mau è sempre stata presente come supporto, e mai come protagonista. Nei live sarà suonata dando particolare peso alla potenza e al potere evocativo che una chitarra può avere. Il live sarà connotato inoltre dalla presenza di Michele, cioè di un dj. L’idea mi è venuta provando, e l’ho trovata sempre più pertinente a quello che stavamo facendo: s’inserisce in quasi tutti i brani sostituendo un po’, se vogliamo, la funzione di un tastierista. Però con caratteristiche più ritmiche che melodiche, contribuendo a un sound che è abbastanza energetico. Non punto molto alla parte poetica – anche se c’è – ma a quella più energetica.
Soddisfatto di come “Vox Creola” è stato accolto dai media di settore?
Mi sono ripromesso, quando a un certo punto smetterò di fare musica, di prendere un foglio e di dare un voto ai miei recensori. Però per il momento, così come faccio da anni, continuo a pensare che il percorso artistico deve prescindere assolutamente dal trattamento mediatico che riceve o meno. Il confronto con la stampa è importante ma non fondamentale. Soprattutto quando sai che le recensioni che leggi sono il frutto di un accordo tra artisti, e quindi uffici stampa, e media. Quindi, così come non mi sono mai esaltato quando ho letto delle recensioni della madonna, così non mi sono mai completamente abbattuto quando ne ho letto altre estremamente negative. Ognuno vede le cose nella sua maniera, io cerco sempre di mantenere come obiettivo quello di fare al meglio ciò che m’interessa.
Christian Gargiulo
[adsense]
0 comments