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Il superamento del punto di rottura. La distanza impossibile da colmare per un coma impossibile da digerire e lasciar passare sotto gamba. Ma anche qualcosa che se non uccide fortifica. Evidentemente per i Deftones pubblicare “Diamond Eyes” ha voluto dire molte cose. In primis, farsi molta forza, continuare quel percorso che li vedeva fermi da “Saturday Night Wrist”, ma allo stesso tempo ricominciare da capo, virare per un sound tanto vicino a quello che sono sempre stati quanto intriso di carnalità, madido di sensazioni che scuotono nel corso dell’ascolto di ogni singola traccia. E un album come “Koi No Yokan” continua proprio dalla fine del sopracitato disco, con una band che si vede nuovamente in sella, sempre con il degno sostituto Sergio Vega al posto di Chi Cheng, e intenta ad affrontare anche la propria maturità, in un panorama come quello metal, di cui si possono considerare “sopravvissuti”.
Chino Moreno non sarà più giovanissimo, ma non per questo è meno grintoso rispetto agli esordi, e quando si tratta di aprire le danze, una volta partiti con il mood di Swerve City, sa sempre come agire, anche quando si tratta di strappare il cuore dell’ascoltatore prima con “Romantic Dreams” e poi con Graphic Nature. Ma i Deftones di oggi non sono esclusivamente questo: sono il beat oscuro che si muove furtivamente al momento di una ballata come Entombed, ma anche nella più eterea What Happened to You, gli applausi infuocati che introducono le visioni predominanti in Poltergeist, il cupo crescendo che anima i pesanti riff di Tempest, d’ispirazione tooliana (casualità? Si stenta a crederlo), una Goon Squad il cui slowcore introduttivo diventa terreno fertile per l’effettistica su cui si adagiano le origini della band. Ma in particolare una Rosemary che potrebbe essere un ideale manifesto dell’opera omnia, un lanternino che illumina il paesaggio una volta passato il tramonto, nell’incedere, nelle dilatazioni soniche delle chitarre e delle tastiere di Frank Delgado, nella sua lieve conclusione. Questo è il nu-metal nella sua resa dei conti, un linguaggio composto da tante sfumature (ulteriormente marcate dalla presenza di Vega) che non si lascia alle spalle il fascino. Un fascino che fa ancora il suo grande effetto.
“Koi No Yokan” non sarà un’opera rivoluzionaria, permeata di chissà quali elementi innovativi, ma è comunque un’ottima continuazione per una band che non si è mai presa sul serio, sapendosi districare lungo quei percorsi dove invece hanno rischiato di perdersi diversi loro colleghi. Un disco sincero, dove è il cuore a essere la voce principale.
Gustavo Tagliaferri
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