Ogni tanto dal Circolo degli Artisti di Roma passa del reggae di ottima qualità. E se alla produzione di uno dei miei locali preferiti si può tutto sommato perdonare la strizzata d’occhi commerciale a personaggi come Babaman, certamente non si può che ringraziarli per aver portato in Italia gli inglesi Dub Pistols. La creatura di Barry Ahsworth, fin troppo sottovalutata, è riuscita a riattualizzare lo ska, il reggae e il dub unendo l’intero scibile giamaicano all’elettronica big beat di fine anni Novanta. Tante collaborazioni (in primis quella con la leggenda Terry Hall dei The Specials), comparsate in colonne sonore, pezzi coinvolgenti: in sintesi, un curriculum di tutto rispetto. Per questo motivo dispiace la poca affluenza di pubblico per Barry e compagni.
L’esibizione in apertura degli Ital Noiz, duo romano dub, si svolge, infatti, davanti a un pubblico numericamente pari a quello di una classe di liceo classico. Con gli headliner i numeri aumentano, ma non giurerei che si sia superato il centinaio. Peccato. Nonostante l’immensa scena reggae romana, sembra che si preferisca il consueto dj-set dove sfondarsi di canne senza troppo badare alla musica piuttosto che un concerto di artisti che sono riusciti quantomeno ad andare oltre al levare standard, sapendo anche prescindere dai luoghi comuni di un genere troppe volte criticato di staticità (a mio avviso anche ingiustamente).
Gli Ital Noiz battezzano in nome di Jah il palco del Circolo, proponendo un dub onesto di stampo elettronico. Basso live, diamonica, campionamenti: non manca nulla. Alla voce e alle cinque corde, Giuliobass delle Radici nel Cemento, nome storico della scena romana, sinonimo di qualità e originalità. Avrei qualcosa da ridire sui testi, poco personali e con qualche banalità di troppo. Sicuramente c’è da lavorarci, ma i loro brani riescono a convincere, anche perché sicuramente non ci troviamo di fronte a pivellini ma ad artisti che il reggae lo vivono con passione. Osare un po’ di più e ricordarsi di essere romani e italiani potrebbe essere il modo per fare il salto di qualità definitivo.
!Never mind the botox, here’s the Dub Pistols”. Parafrasando Johnny Rotten, direttamente da Londra arrivano Barry Ashworth e compagnia turnista. Un’ora intensa di musica giamaicana “remiscelata” proposta con dovizia di cura e qualità, saltando tra passato e presente senza troppi convenevoli e con. Andare oltre il reggae onorando la tradizione. La band, vestita di tutto punto nemmeno fossero professionisti della City londinese, coinvolge gli astanti con ritmi che forzano il ballo e il movimento, anche quello più sconclusionato. Giri di basso che ti scuotono le viscere, elettronica sapiente e fiati che sembrano venire dritti dritti dai Caraibi degli anni ’60. E, giusto per non farsi mancare nulla, una cover graditissima di Gangsters degli Specials tra i bis. Un “punky reggae party” di tutto rispetto. A dimostrazione che i Dub Pistols sono vivi e vegeti e hanno ancora qualcosa da dire, nonostante cambino formazione un giorno sì e l’altro pure.
Peccato che non ci fosse abbastanza gente ad accorgersene.
Livio Ghilardi
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