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In principio fu l’isolamento, via di fuga che è alla base di “Insurgentes”, indossando una maschera antigas con lo scopo di proteggersi dallo smog quotidiano, non costituito solo da rifiuti tossici e gas velenosi, ma da aridità, odio, freddezza, sentimenti ancora persistenti tra i viventi. Non poteva che seguire l’innalzamento angelico verso uno stato di benessere, con “Grace for Drowning“, la sparizione di fronte ai mostri terreni, il ritrovamento di una felicità interiore che passa attraverso la parte sognante, onirica del progressive rock. Di conseguenza, la terza fase non poteva che essere la metamorfosi definitiva, un ritorno alle proprie radici, la definitiva convivenza con la propria nuova forma di essere umano, in un’altrettanto nuova dimensione. Ma anche il rapporto con presenze oscure, ectoplasmi, spettri, fantasmi, situati qua e là. Caratteristiche alle quali risponde Steven Wilson, che del mondo progressive e non ha fatto una grande ragione di vita, dandogli molteplici chiavi di lettura.
“The Raven that Refused to Sing (And Other Stories)“, sua nuova opera in studio, è il risultato di questo tormentato iter, dove a tornare prepotentemente in auge è un suono 70’s che ha dato man forte al mondo prog, mentre Méliès e Munch stanno a guardare. Nell’arco di cinque composizioni prende atto la creazione di un nuovo mondo, a partire da Luminol, Yes e King Crimson a rapporto, là dove a metà strada sembra innalzarsi all’orizzonte un nuovo “Close to the Edge”. Meno vicino a questa tendenza è invece The Holy Drinker, composizione multiforme, con tanto di tinte jazz-fusion, rappresentate dal contrasto tra la fiatistica di Theo Travis e il lavoro alle tastiere di Adam Holzman, e gradualmente sempre più lontano dal rischio di agglomerarsi su formule dreamtheateriane usate e straabusate. Mentre The Watchmaker è l’apoteosi, la consacrazione, un omaggio a Genesis e Van Der Graaf Generator, l’incontro tra mellotron ipnotici e dolci linee di pianoforte alla luce di linee di basso forse un po’ pesanti, ma non banali. Maggiormente vicini al linguaggio della band madre dell’artista sono invece i momenti più corti, dal soave incedere di Drive Home alla più tirata The Pin Drop, sassofoni e chitarre visti attraverso ottiche differenti.
Se Steven Wilson sia stato realmente colpito da un’aura magica che ha contribuito positivamente alla sua già fervida immaginazione forse non sta a noi rispondere. Quello che è certo è che siamo di fronte all’ennesimo lavoro dove l’ispirazione continua a farsi sentire, con o senza i propri progetti, cercando di non ridursi soprattutto a mera e stereotipata routine.
Presenze che si lasciano ospitare molto volentieri.
Gustavo Tagliaferri
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