Roma. Auditorium Parco della Musica. Sala “Petrassi”. 21 o poco più. Entra in scena un uomo. Stazza possente, alto, barba incolta. Potrebbe sembrare burbero, a tratti l’andamento impacciato può suggerire tenerezza. È una persona profonda, vera, sincera. E non perché lo conosca personalmente, ma lo si comprende pienamente semplicemente ascoltandone la musica o guardandolo su di un palco mentre accenna movimenti di danza buffi o con intensità straordinaria dedica un pezzo a una persona cara scomparsa nel modo peggiore possibile.
Lui è John Grant. Accompagnato da una band quasi interamente islandese e dal bravissimo pianista inglese Chris Pemberton, il cantautore di Denver presenta i suoi brani, le sue storie, le sue emozioni. Con grazia e senza peli sulla lingua, senza paura di mostrare nuda la propria anima davanti ad una platea attenta e tutta dalla sua. Giusta centralità all’ultimo “Pale Green Ghosts“, sophomorealbum uscito quest’anno, praticamente eseguito nella sua interezza, con la preponderante componente elettronica esaltata ancor di più live. Ci sono ovviamente anche estratti del debutto “Queen of Denmark”, come la bellissima title-track, TC and Honeybear su richiesta del pubblico nonché, come unico striminzito bis, Marz.
Un’ora e mezza alla cui fine, dopo che John Grant si allontana in punta di piedi, sommesso proprio come era entrato, quasi ti verrebbe voglia di rincorrerlo per andare ad abbracciarlo e ringraziarlo.
Una serata sincera, nuda e cruda, come una birra con un caro amico che non vedi da secoli.
Livio Ghilardi
[adsense]
0 comments