Indubbiamente, “Django Unchained” è uno dei film dell’anno. Vincitore di due premi Oscar, campione di botteghini e acclamato da pubblico e critica, con la sua ultima opera Quentin Tarantino si è superato un’altra volta. Al solito, il regista italoamericano non ha mancato di infarcire la sua pellicola di gustosissime citazioni dei suoi film preferiti, in primis i b-movies italiani degli anni ’70 di cui è uno dei cultori più noti e informati. Tra questi, “Lo chiamavano Trinità…”, il più importante spaghetti-western in salsa comica dell’epoca, con l’utilizzo del main theme del film con Bud Spencer e Terence Hill (pre-conversione in Don Matteo). La colonna sonora fu allora realizzata dal romano Franco Micalizzi, uno dei compositori di musiche da film più importanti della storia patria. Autore, tra le tante, delle soundtrack di “Italia a mano armata”, “Roma a mano armata” e “La banda del gobbo”, veri e propri classici del poliziottesco italiano, le cui musiche sono recentemente tornate in auge grazie anche alla sapiente opera di riscoperta compiuta dai Calibro 35. Artista apprezzato anche per la sua capacità di unire generi diversi e per aver scritto l’indimenticabile sigla del cartone animato “Lupin III”. Abbiamo contattato il disponibilissimo Maestro Micalizzi per un’intervista, nella quale abbiamo parlato del cinema italiano, di Quentin Tarantino e dei suoi progetti attuali. Perché il nostro non ha nessuna voglia di andare in pensione.
Maestro, innanzitutto grazie per la sua disponibilità, le confesso la mia emozione nel poterla intervistare.
Ma grazie a te per la tua cortesia.
Quentin Tarantino ha recentemente tributato la sua opera, scegliendo il tema principale di “Lo chiamavano Trinità…” per la scena finale del suo ultimo film, “Django Unchained”.
È stata una cosa bellissima e soprattutto una grande sorpresa perché l’ho scoperto solo poco prima dell’uscita del film, quando l’editore mi ha comunicato il desiderio di Tarantino di inserire il pezzo. Lui aveva già fatto una cosa del genere nel suo film “Grindhouse – A prova di morte” con i titoli di testa di “Italia a mano armata”, quindi ormai sto diventando un habitué nei suoi film (risata, ndr). “Django Unchained” peraltro è davvero un bellissimo film, molto divertente, realizzato ottimamente, e ha avuto e continua ad avere un successo meritatissimo. La scena finale con le mie musiche poi è davvero azzeccata, c’è persino il cavallo che riprende “Lo chiamavano Trinità…”. È un film girato con l’idea dei film di Sergio Leone, quindi anche con parti più violente, ma con l’ironia di “Lo chiamavano Trinità”, mescolando al meglio i due generi di western italiano. In ciò è stato avvantaggiato anche da attori bravissimi. Davvero un film ben fatto.
Questo tributo di Tarantino s’inserisce pienamente nella riscoperta e nella rivalutazione del cinema italiano degli anni ’70 avutasi negli ultimi tempi, dai poliziotteschi alle commedie sexy.
Negli anni ’70 e in parte anche prima, negli anni ’60, si faceva il cosiddetto cinema di genere. C’erano filoni ben precisi: lo 007 fatto all’italiana, il poliziesco all’italiana, il western all’italiana. Si facevano film sui viaggi. Ci si concentrava, insomma, su di un genere ben preciso. Il film di genere oggigiorno è sparito. Nessun regista italiano fa dei film di genere, non ho ben chiaro il perché. La televisione ha ormai cambiato i registri di racconto, soprattutto dopo l’avvento delle fiction. In Italia si fanno queste commedie giovanilistiche, storielle insomma, eccezion fatta per qualche buon film che ogni tanto viene fuori. Il film di genere era visto male dai grandi critici e dagli intenditori. Era considerato un cinema di serie B, un cinema minore. Quando uscì la prima videocassetta di “Lo chiamavano Trinità” me lo comunicarono e decisi di andare a comprarla. Andai in una videoteca e, dopo aver cercato invano, dissi al commesso: “Guardi, ho cercato il film ma non l’ho trovato“. Lui mi rispose indicandomi delle mensole in fondo sotto la scritta “Trash Movies” e mi assicurò che l’avrei trovato lì. Son soddisfazioni insomma. Forse quindi Tarantino è arrivato e ci ha tolto dalla spazzatura, se non altro. Ha capito che tra questi film c’erano delle porcherie effettivamente, ma c’erano anche dei piccoli colpi di genio, come “Lo chiamavano Trinità”, i primi film di Leone (che all’inizio erano considerati anch’essi trash movies e furono riabilitati solo successivamente) e tanti altri. Meno male che è arrivato.
Questa riscoperta si è avuta anche da un punto di vista musicale. Penso ai Calibro 35, a Bologna Violenta.
Ci sono io stesso a suonare ancora, con la Big Bubbling Band. Ho ripreso in mano la mia musica perché avevo voglia di suonarla dal vivo, un mio amico che aveva un locale qui a Roma si è prestato a questa cosa, ho selezionato diciotto elementi giovani e bravissimi e ho fondato una big band, la Big Bubbling Band, con la quale ho ripreso i miei brani del passato, soprattutto quelli tratti dai polizieschi degli anni ’70. In aggiunta, la sigla di “Lupin III” che ho composto io e che è stata un grande successo. Da lì mi è stato proposto un progetto più allargato, uno spettacolo con rapper e dj, con i quali abbiamo suonato al Rolling Stone di Milano che purtroppo adesso non esiste più. Abbiamo avuto un successo enorme, replicando poi a Roma al Teatro Palladium con un sold-out e tanta gente che non è riuscita a entrare per assistere. Sono grato ai Calibro 35 per aver ripreso i miei brani, ma se io non avessi recuperato la mia storia insieme alla Big Bubbling Band probabilmente nemmeno i Calibro 35 stessi sarebbero stati interessati a farlo (non sono convintissimo della cosa, ipse dixit, ndr). Io son contento che loro suonino questo genere di musica anche perché fanno scoprire la mia opera a un pubblico diverso.
Recentemente abbiamo suonato anche all’Auditorium di Roma. Mi piace molto l’intesa che si è venuta a creare col pubblico che viene a vederci e questo facilita molto anche il nostro ruolo di musicisti. Speriamo ancora di continuare su questa falsariga.
Recentemente ha pubblicato anche un nuovo album, “Veleno”.
L’ultimo disco, contrariamente ai precedenti in cui rieseguivo brani tratti da colonne sonore precedenti in forma più o meno simile, presenta solo pezzi inediti eccetto Flute Sequence, già inserito nella soundtrack di “Chi sei?”. Pirandellianamente sono brani in cerca di un film. Ognuno di questi pezzi potrebbe benissimo essere nella colonna sonora di una pellicola. Uno ce l’ha già fatta: Fuoco è stata inserita nel film “Una famiglia perfetta” di Paolo Genovese. Adesso sto lavorando al prossimo. Mi diverto tanto a scrivere materiale originale. Sono cose tendenzialmente sempre legate al mio stile d’impronta funk con i fiati ma con un’evoluzione maggiore.
Com’è nata l’idea della commistione con l’hip-hop, realizzata qualche anno fa come accennava prima?
Quella con l’hip-hop è stata un’esperienza del tutto nuova che nessuno aveva mai fatto prima in tutto il mondo: prendere temi di un film e rieseguirli live con rapper, dj e breakdance. È una cosa che mi piacerebbe tanto ripetere. Devo avere l’occasione giusta per rifarla, trovare le persone giuste per riproporla al meglio. È una cosa che ha funzionato bene e che rifarò con piacere. Adesso invece ho appena finito di lavorare a un musical legato al mondo dell’hip-hop perché ambientato nella periferia di una città, con ragazzi che vivono di rap e breakdance. Sto aspettando di portarlo in scena, è pieno di ottimi brani. Non è facile perché può sembrare molto costoso e invece non lo è. Speriamo di poterne parlare nella prossima intervista.
Glielo auguro. So che nella sua band c’è anche suo figlio Cristiano, alla batteria. Com’è suonare con suo figlio?
Bellissimo, adoro qualsiasi cosa che faccio con i miei figli. Anche Alessandro suona, è un bassista ma non ha molto tempo da dedicareai live pertanto si è limitato sinora a suonare nei miei dischi. Ha un’attività editoriale che non gli concede molto tempo libero. Con loro però suonerei anche sulla Luna. C’è un’intesa magica, basta solo guardarci, anche se con Cristiano ogni tanto litighiamo sul tempo. Lui è un batterista fantastico, al di là del fatto che sia mio figlio, sia chiaro. Ha una precisione e una pulizia del tocco riconoscibile tra tanti. Non dico di più sennò passo per partigiano.
Lupin è stato uno dei suoi grandi successi musicali e è tuttora uno dei cartoni animati più amati in Italia.
Di solito quando dico che ho composto Lupin c’è gente che sviene e dice: “No, non è possibile!“. Sono molto attaccato a quel pezzo perché è di un genere che amo molto, ha una forte impronta stilistica francese. Scrivere un brano simile mi ha fatto molto piacere. Fortunatamente ha avuto anche grande successo, ormai son passati trent’anni da quando l’ho realizzato.
Nella sua lunga carriera, per quanto difficile sia scegliere, c’è un’opera a cui è più affezionato o un periodo artistico che ricorda con più affetto?
Il periodo a cui sono più affezionato è quello in cui ho cominciato a scrivere colonne sonore. Era un’avventura, la realizzazione di ciò che desideravo fare da sempre. Quando finalmente riesci a fare esattamente il lavoro che ti piace è una grande emozione e anche una fonte di stress se vuoi, perché ti misuri con quello che deve essere la tua vita futura e non puoi sbagliare, devi essere capace. Allo stesso tempo è una cosa premiante. Ti direi i primi film, insomma, soprattutto “Lo chiamavano Trinità” che è stato il primo e a cui sono legato per tantissime ragioni.
Livio Ghilardi
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