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Sperimentazione, larghe vedute e musica di ampio respiro. Istinto ed empatia verso quel che scrive e che interpreta. La personalità di Meg continua a imporsi nella scena musicale italiana rinnovandosi continuamente, cercando sempre quell’elemento che fa da zenith alla creatività dell’artista. Ma senza tralasciare quelle che sono le sue radici partenopee, alle quali si sente imprescindibilmente legata.
In questi ultimi mesi del 2013 la tua produzione musicale ha visto come protagonista una rivisitazione di Estate di Bruno Martino, un pezzo che indubbiamente ha influenzato fortemente tutto il background musicale italiano. Come ti sei approcciata a un pezzo così famoso e con un’identità così ben marcata?
Estate è un pezzo che conosco da quando ero piccola, mi ha sempre colpito molto il testo, ma solo in un secondo momento, da grande, mi sono resa conto di quanto fosse un pezzone di altissimo livello, un picco della nostra cultura. I pezzi così famosi, se ti piacciono, finiscono sempre per diventare tuoi. E se decidi di ricantarli, non conta piu’ il fatto che siano famosi, quanto il fatto che tu ti rispecchi nelle parole e nella melodia. Quindi l’approccio è di grande familiarità, senza ansia di prestazione. L’arrangiamento e l’interpretazione che dai ex novo alla tua versione sono la risultante di questo senso di familiarità. Ed anche la prova che una canzone bella puoi declinarla in infinite modalità. La mia è stata super minimale, per dare risalto alla melodia: solo voce e arpeggiatori.
Nei tuoi video emerge spesso, oltre che l’immancabile istanza della musica, una tua attitudine all’interpretazione dei brani che canti, attraverso primi piani che riprendono la tua espressività facciale. Che rapporto hai con la tua immagine?
Devo necessariamente interpretare ciò che canto: come un’attrice che va in scena ogni sera con le stesse battute, ma che deve necessariamente risultare credibile nonostante le abbia ripetute infinite volte, allo stesso modo, quando canto dal vivo o in un video, ho bisogno di “sentire” ogni parola che pronuncio, sentirla che risuona vera e potente dal punto di vista emozionale dentro di me. Ogni parola deve risuonare all’ascoltatore come se quella canzone la stessi cantando fresca fresca per lui lì per la prima volta. Mi diverto molto a giocare con la mia immagine, con i miei amici e collaboratori fotografi e videomaker mi piace sempre esplorare l’ambito visuale del mio lavoro: in qualche modo aggiunge sicuramente significato alla mia musica, anche se magari solo a livello inconscio.
L’ultimo anno è stato segnato da una collaborazione con Colapesce nel singolo Satellite e poi, successivamente, nel “Bipolare Tour”. Com’è stato fondere due universi musicali così diversi insieme? Cosa ti ha lasciato questa esperienza?
Mi è sempre piaciuto osare e sfidare le “leggi dei generi musicali”. Una parte cruciale della mia formazione musicale e professionale è avvenuta negli anni ‘90, anni in cui finalmente e definitivamente sono cadute tutte le frontiere tra i generi e gli stili, ed è stato possibile cominciare a creare senza preconcetti e paure di metodo. La musica elettronica è diventata l’emblema di questa libertà di espressione ed io l’ho subito sentita mia. È stata la golden age degli anni ’90 che mi ha fatto capire che una batteria elettronica, un piano acustico, un sintetizzatore e un violoncello possono tranquillamente convivere senza che ci sia nulla di deplorevole in tutto ciò. Detto questo, unire mondi sonori apparentemente agli antipodi è un’impresa che mi ha da sempre affascinato. E divertito.
Una caratteristica che emerge da tutto il tuo vissuto musicale è che sei un’artista che si reinventa continuamente, mettendo in discussione il lavoro fatto precedentemente creando qualcosa di completamente diverso ogni volta. “Psychodelice” ne è una prova lampante. Quanto è importante per te la sperimentazione, in musica?
È l’ossigeno. Senza sperimentazione sarebbe una noia mortale e non riuscirei a fare il mio lavoro. Sono ossessionata da alcuni chiodi fissi, tra cui la musica e l’indipendenza. Mi piace circondarmi di persone che abbiano tra i propri chiodi fissi almeno uno tra questi due. Per questo poi mi piace lavorare con musicisti e collaboratori con un’apertura mentale a 360°. Le ideologie, nella vita come nella musica, ammazzano l’onesta’ intellettuale e la libertà di espressione.
Quanto ha inciso, a tuo avviso, la napoletanità nella tua identità musicale?
Tantissimo! Un amico poco tempo fa mi ha detto dopo un mio concerto: “Anche se canti in italiano e ti ostini a fare musica sperimentale elettronica, quando apri bocca sul palco e canti, sembra sempre che stai cantando una canzone napoletana!“. Che ridere, ha ragione lui! È nel mio DNA: i tempi in tre quarti, il melò, lo scrivere per contrasti e iperboli, sono tutti elementi che parlano chiaramente delle mie radici, del sud, di Napoli.
Gli ultimi singoli pubblicati sfociano in uno stile compositivo più introspettivo rispetto ai precedenti, parlo di Promemoria e Il confine tra me e te… Come procedi nella scrittura delle tue canzoni? Sei metodica o ti muovi d’istinto?
Prevale sempre l’istinto quando scrivo. Devo sentire dentro di me che sono onesta mentre sto dicendo quelle cose. Anche se scrivo qualcosa per altri, ci metto sempre qualcosa di autobiografico; ho bisogno di essere in totale empatia con l’argomento di cui voglio parlare.
Ti ascolteremo presto in un nuovo album da solista?
Certo, ora mi chiudo da qualche parte, butto via la chiave e finisco il disco nuovo.
Cosa c’è nel tuo lettore musicale nell’ultimo periodo?
Siriusmo, Congorock, Digi G’Alessio, Chrome Sparks, Tirzah, Micachu, Doldrums, Purity Ring, Dream Koala, The Knife, Totally Enormous Extinct Dinosaurs…. E molto altro…
Anna Soares
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