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Un tempo era lo spazio la destinazione facilmente conciliabile con l’immensità dell’ignoto e fungente da meta in quel viaggio che da “Hapax” è arrivato fino a “Gravità inverse“. Un tempo. Ma il cuore, la chiave della conoscenza, in più di un’occasione finisce per avere la meglio. Il proprio io sondato e sviscerato nella sua interezza, lungo strade che portano ad una città che è piacere e mistero allo stesso tempo. Per i pisani NUT deve sembrare un po’ strano sceglierla come destinazione, ma “Babylon” non è solo la meta di una nuova tappa, ma anche il segno di un cambio di programma, tanto in fatto di formazione, ormai ridotta alla coppia costituita da Matteo Sciocchetto e Matteo D’Ignazi, resa live a parte, quanto anche nell’abbandono della lingua italiana a favore dell’inglese. Aspettative che trovano immediatamente conferma una volta che a coadiuvarle è la voce di popolazioni berberiche che urlano al mondo il proprio mantra (The Return) e che si fanno tutt’uno con le dilatazioni di stampo post-rock che verranno di conseguenza (A), ma soprattutto con lo spirito 70’s di Chameleon, che viene alla luce accompagnato da una Daimon che porta con sé echi dei Blue Oyster Cult più cupi in un contesto alla Pain of Salvation, una Whisper che è A Perfect Circle e Pink Floyd allo stesso tempo, i desideri onirici di Hybris e una Addiction che finisce per risultare uno degli episodi maggiormente riusciti del lotto, memore come è tanto della Seattle dei ’90 quanto persino di certi Deftones. Non male, davvero, per quella che è una mistura di atmosfere tale da rafforzare ulteriormente il concetto di progressive-rock a cui sono stati sempre legati i NUT, e che rende “Babylon” un album ancora più avvincente ed introverso di quanto già non sia.
Gustavo Tagliaferri
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