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Da quella centrale da cui Vasco Brondi riprese il nome per farne un progetto musicale, scaturiscono ancora ispirazioni. Ispirazioni deboli, visto che il Brondi continua a girare intorno a queste luci (che ora sono diventate costellazioni), al suo passato (posti e musiche con cui è cresciuto); a cui, per fortuna, si è aggiunto anche qualcosa di più recente. C’è qualcosa di diverso nell’aria, che spinge ad ascoltare il nuovo disco (senza pregiudizi) anche a chi non ha mai apprezzato Le luci della centrale elettrica e ha continuato a chiedersi cos’ha questo progetto da farlo funzionare così bene (almeno vedendolo secondo in classifica FIMI).
Dopo “Per ora noi la chiameremo felicità”, in cui gli strumenti erano piuttosto marginali, arriva il terzo album (con la co-produzione musicale di Federico Dragogna dei Ministri), in cui si sente la presenza di una vera e propria band: chitarre, archi, elettronica e cori. Un parlato molto più modulato, un suono più caldo, un paesaggio meno grigio del solito e un’aggiunta pop che risulta essere decisamente d’aiuto. Brandelli di vita e cut-up citazionistico estrapolato da film, libri e canzoni; il tutto accostato secondo un “ragionare per immagini” (direbbe lui). E così, dopo “l’incubo dei pesci rossi” (Stagnola), arriva la “luminosa natura morta con ragazza al computer” (Destini generali), linguaggio brondiano che, nonostante tutto, pare si sia concesso qualche regola di scrittura in più rispetto al passato (c’è un po’ di narrativa).
L’opener, La terra, l’emilia, la luna, fortemente evocativa soprattutto per chi ama o ha amato i CCCP e i film di Nuti: “un insieme di violenze e di speranze… di scontri e di feste” su una chitarra soffocata e una batteria distorta. Dopo l’omaggio a “Murray Street” (I Sonic Youth) e un minuto e mezzo di post-punk distorto (Firmamento), arrivano un country dal sapore gucciniano (Un bar sulla via lattea) e un richiamo agli anni ’80 dei CCCP e di Battiato (Ti vendi bene). Padre nostro dei satelliti invece è una preghiera in cui echeggia De Gregori, echi che ritornano in Blues del delta del Po, impreziosita dai contrabbassi di Stefano Pilia, amplificatori, distorsori e piano di Enrico Gabrielli.
Probabilmente, tanto i numerosi concerti, quanto la critica che accusava Brondi di tirar fuori sempre le solite litanie sui tre accordi di chitarra, hanno portato i suoi frutti ma anche stili e registri per nulla lineari. Costellazioni confusionarie e variegatissime: c’è il brano da pogo, il beat elettronico e punkeggiante per ballare, la ballad toccante, il pop radiofonico. Non si può negare un certo impegno per tale cambiamento e piccolo salto di qualità decisamente inaspettati, e questo ci terrà buoni per un po’.
Carmelina Casamassa
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