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Andare al Wacken è un’esperienza trascendentale e questa edizione è stata pienamente soddisfacente.
Ci sono state critiche, per lo strapotere mostrato dalla compagine di Clisson, che ha organizzato un Hellfest con headliner di maggior prestigio, surclassando i colleghi tedeschi in termini di appeal commerciale. Ma il Wacken scatena un’energia senza eguali, con il suo contesto enfatico ed entusiastico, quasi fosse una terra santa, dove ogni band può dare il meglio di sé, come in nessun’altra parte del mondo.
Tanti gruppi hanno calcato i vari palchi crucchi ma, senza dubbio, questo è stato il Wacken di King Diamond, reduce da importanti problemi fisici e da dissidi irreparabili all’interno della stessa band. Il suo concerto ha sublimato l’incanto del Wacken, elevandolo ad un iperuranio accessibile, straniante, maligno, delirante, lasciando sorprese decine di migliaia di ammiratori. danese, una volta partita flebilmente, acquista forza e stabilità, forse per mezzo di quella sabbia magica che avvolge il mainstage. E così il vecchio King Diamond è tornato indietro nel tempo, ricordando di essere il padrino, direttamente o indirettamente, della stragrande maggioranza dei gruppi metal odierni, mostrando la potenza dell’oscurità, scatenando un inferno di emozioni e visioni, supportato da un impianto scenico stupefacente. Il saluto al pubblico ha reso palese la riconoscenza del Re al Wacken, quasi fosse consapevole di aver goduto di una spinta dalle viscere dell’assurda capitale del metal, in barba a quel cuore difettoso che, più di una volta, ha rischiato di scandire i tempi dell’inferno dall’inferno stesso.
È difficile dire se ci siano state band deludenti, tanto godono i gruppi della propulsione estatica generata dall’oasi del metal, e chi scrive non sente di potersi lamentare di fronte ai propri occhi.
La meraviglia, però, si è manifestata nella voce sofferta di un Lemmy sempre più saggio e rock, osannato, a giusta ragione, da due generazioni di metallari, pronti ad intonare ogni parola sbiascicata dall’icona dei Motörhead. Veder picchiare quel Rickenbacker è come prender parte alla storia di questo genere musicale, udire l’anima di una delle più grandi personalità di questo secolo, e poterci dialogare liberamente.
Neanche gli Accept perdono un colpo, forti di essere nella loro patria natìa e di poter vantare una line-up praticamente imperitura, sfoggiando lo stile neoclassico come quello di Wolf Hoffman che con Metal Heart farebbe infervorare persino mia nonna.
Behemoth ed Emperor sono stati più distruttivi del solito, sfruttando vagonate di decibel in nome di una prestazione devastante, ed assolutamente brillante.
Grandi gioie sono sono provenute dagli onnipresenti Skid Row, padrini del glam, e dai variopinti e caricaturali Steel Panther, con la relativa carrellata di seni nudi inquadrati sui monitor; canzoni amabilmente volgari, gestualità deliziosamente machista, il tutto condito da rossetti, lacca per capelli e tutine attillate; spettacolari nel loro show, ma finché non azzeccheranno una ballad davvero efficace il mito dei Mötley Crüe resterà distante anni luce.
Altra sorpresa sono stati gli Arch Enemy, nei quali possiamo ufficialmente affermare che la bella Alissa White-Gluz ha superato l’ennesimo provino, relegando Angela Gossow nell’angolino dei ricordi.
Nessuno ha tradito la fiducia del pubblico in questa edizione: dai Kreator agli Slayer, dai Children of Bodom ai W.A.S.P, ecc. E, non a caso, il sold out si raggiunge ogni anno in poche ore.
Foto di Adrian Nadir Petrachi
Adrian Nadir Petrachi
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