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Cari colleghi,
che il postmoderno fosse finito lo sapevamo ormai da tempo. Che i suoi effetti tuttavia fossero ancora blandamente riconoscibili in molte opere audiovisive ce lo stiamo ancora raccontando da qualche anno. Tuttavia cosa ci sia effettivamente dopo di esso, quale sia la dimensione narrativo percettiva che ne prenda ereditariamente in mano le redini, questo proprio non riusciamo a definirlo bene. È proprio per questo che adesso, proprio il sottoscritto, proprio qui, su questo sito, si permette in qualità di importante ignoto e autorevole sconosciuto appassionato di trame e strutture dell’audiovisivo, di proporre alla vasta, vastissima comunità scientifica che legge queste righe la candidatura del video ufficiale di Rise of the Serpent degli Aucan come esponente perfetto dell’estetica contemporanea degli anni ’10.
Ciò che innanzitutto mi spinge a proporre la candidatura è la forte sensazione del già visto che ricorre durante la visione. Sia chiaro cari colleghi, quest’ultima affermazione, così come quelle che seguiranno, non devono essere prese come giudizio di valore, ma altresì intese come neutri indicatori dell’esperienza visiva di chi guarda, e non di chi, più superficialmente, vede. Tornando a noi, l’assenza quasi totale di una velocità normale o quantomeno della sua percezione porta lo spettatore a seguire le immagini più che la storia, che tuttavia scorre più forte e vigorosa che in qualsiasi mero mosaico post moderno. Si parla di (e si passa attraverso) metropolitane, hipsteria urbana, scantinati fluorescenti al neon sporco, neri che vendono droga liquida e bianchi che rubano e uccidono per lei, per lasciarsi bagnare, immergere, dipingere, innestare. Le azioni che vediamo sono generalmente consequenziali, pur con quale salto di montaggio tra un “effetto” brevemente accennato poco prima del racconto della causa (viene in mente la scena del bagno finale, svelata appunto dopo nella conclusione ma anticipata più volte precedentemente). E tutto questo contribuisce alla costruzione solida più che mai di un’espressione estetica generazionale con una simbologia molto forte, che va dal privato urbano, fino all’allucinazione come espressione di violenza, passando per la solitudine dei colori primari nelle stazioni dell’”underground”, in entrambe le sue accezioni. Ma la forza espressiva di tutto questo è anche strappo dinamico dai vecchi modelli che rappresentavano gli stessi contenuti. Carrelli, contrasti elevati, low quality e decostruzione lasciano qui spazio a steadycam “a seguire”, slider, desaturazione, altissima qualità dell’immagine e precisissima composizione dell’inquadratura. E tutto questo condiziona di gran lunga la narrazione che appare in questo caso non più come un racconto frammentato rigonfiato di inserti metaforici da dover decifrare, ma come una dimensione in cui lo spettatore viene condotto e nella quale l’unico obiettivo è stare ad osservare inerte ciò che mostra la lenta fluidità della macchina da presa. Stilisticamente quindi, la precisione dell’occhio del regista si pone come cura alla follia urbana, fino a svelare all’ultimo che esso (l’occhio) non è altro che il sadico eccesso della prima (la follia). Insomma, tutto nel catartico video girato dalle mani artigiane di Marco Prestini (altro importante esponente del “genere” insieme alla sua Flash Factory) si presenta come il componimento perfetto per la descrizione prima e la comprensione poi di una fascia generazionale ancora tutta da scoprire, che vive a testa alta ma solo perché costretta dalla chiusura dell’ultimo bottone della camicia bianca a maniche corte.
Cari tutti, sperando che la mia proposta non venga cestinata insieme alle altre numerose che quotidianamente vengono inoltrate alla vostra attenzione, vi auguro una saggia nottata ed un buon lavoro, ovunque esso vi porti.
Cordialmente,
a cura di Jacopo Maresca
VideoVisioni: analisi, visioni, impressioni. Critica e recensioni dei videoclip contemporanei.
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