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Come rivedere il cantautorato italiano in chiave moderna. Ecco i Dilaila, molto di più di un semplice e aggraziato salto negli anni sessanta. C’è forte personalità, gusto e una voce importante in “Ellepi”, il loro ultimo lavoro. Ne parliamo con Paola Colombo, voce del gruppo milanese.
2010, un anno in cui molte band sono ritornate sulle scene. Voi mancavate da cinque anni, che cosa avete fatto in tutto questo tempo?
Dopo l’uscita e la promozione di “Musica per robot” abbiamo attraversato una vera e propria crisi, sia artistica che organizzativa. Non sapevamo bene che direzione avrebbero preso le canzoni, né che tipo di visibilità avrebbero potuto avere. Sono stati anni di grandi cambiamenti e destabilizzazioni, anche a livello personale. Poi, con calma, gradualmente, abbiamo ritrovato coesione e decisione. Nel frattempo come persone eravamo cambiate e il nuovo lavoro porta sicuramente i segni di tutto quello che ci è successo.
Rispetto ai precedenti lavori i Dilaila mi sembrano, come dire… “cresciuti”? Passami il termine…
Ecco, appunto. Al di là delle questioni anagrafiche e dell’anno di nascita, è quasi impossibile che le esperienze della vita non si sentano poi anche in tutto quello che fai. In più i Dilaila come band esistono dal 1998: la maturazione, che il suo esito piaccia o no, era qualcosa d’inevitabile.
Cosa mi dici della copertina di “Ellepi”? Credo che rappresenti splendidamente tutto quello che c’è nel disco.
Trovo che sia uno scatto meraviglioso, e non finirò mai di ringraziare ed elogiare Verdiana Giovinazzo per averlo realizzato. Ha saputo cogliere il carattere cinematografico che abbiamo voluto dare alle canzoni, ha reso visibile quell’immaginario di eleganza decadente e ossessionata che ha ispirato la nostra scrittura.
Mi hanno incuriosito i testi; si alternano momenti ironici e cattivi a momenti più tristi e intensi. Come arrivi alla stesura di un testo per una canzone?
Intanto voglio premettere che la responsabilità dei testi non è solo mia, ma anche di Claudio Cicolin. In questo modo, se mi dicono che una certa frase è brutta, posso attribuirla a lui. E così si spiega anche un certo livello di schizofrenia latente.
In realtà la lunaticità è qualcosa che mi appartiene profondamente e il disco non fa che assecondare i miei frequenti sbalzi di umore.
Lo stesso vale per l’ironia, la trovo un ottimo modo per tenere sveglio il cervello. Credo che l’umorismo sia uno dei più lampanti sintomi d’intelligenza e spesso (forse sono un po’ troppo esigente) mi capita di selezionare le persone di cui voglio circondarmi in base alla loro capacità di fare e capire le battute.
I miei testi sono spesso frutto di riflessioni paranoiche come questa e altre…
I personaggi e i momenti che racconti nelle canzoni hanno riferimenti personali? Ad esempio, chi è Ally?
Ally nella fattispecie è un personaggio di fantasia, appartiene a una storia che mi sono inventata di sana pianta. Però questa storia scaturisce da riflessioni più generali sul rapporto fra l’amore e il dolore, sulla facilità con la quale si può passare dall’adorare qualcuno al ferirlo irrimediabilmente. Riflessioni che senza dubbio riguardano anche la mia vita privata. Dopodiché basta un po’ di gusto per l’iperbole e per la teatralizzazione e il gioco è fatto.
Immagini mai i Dilaila al Festival di Sanremo?
Sì, nel 1968. Sanremo da anni è un dinosauro, a questo punto allora meglio rifugiarsi nel passato.
Di che film ti piacerebbe fosse colonna sonora “Ellepi”?
“La ragazza con la pistola” di Mario Monicelli. Un capolavoro di femminilità, ironia, passione, ossessione, disincanto. Anzi, il mio sogno sarebbe stato quello di interpretarlo al posto di Monica Vitti, ma credo sia inarrivabile, quindi mi limito a cantare canzoni.
Daniele Bertozzi
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