Sfinge, Cheope, Chefren o Micerino che sia, da qualche parte, nell’immenso Egitto, si ode in un crescendo sempre più grande quello che può essere identificato come un dialogo sommesso, quasi un sussurrio, e in contemporanea ad esso scorre, quasi inceppata, la puntina di un giradischi. Che possano essere considerate come delle voci dall’oltretomba? Non è escluso. Il mantra continua ininterrottamente, fino ad un certo punto. Ed è lì che avviene la discesa in quella che può essere considerata una vera e propria giungla, tra cascate e piantagioni di vario tipo. Un luogo che racchiude in sé anche un misterioso villaggio, nel quale possibile ammirare quelle tribù che, con tanto d’immancabili maschere adoperate nel corso dei rituali, sono intente a muoversi al suono di danze a metà tra il mistico e il tribale, tendendo addirittura al samba, e con in più degli intervalli che percorrono tanti altri generi, dal jazz fino al metal, con un fare molto schizofrenico. Un vero e proprio rito voodoo con un tocco brasileiro, praticamente. E allo stesso tempo una formula sintetizzabile con il nome di Mombu.
E chi sono i responsabili di tutto ciò? Due indigeni che rispondono ai nomi di Antonio Zitarelli e Luca Tommaso Mai, rispettivamente il batterista dei Neo e l’addetto ai fiati degli Zu, artefici di un suono che può essere considerato l’alternativa al synth’n’roll di Massimo Pupillo e dei Germanotta Youth, tanto per rimanere in tema di side-project, e considerando quello che è il periodo di stallo per la band romana in questione.
Un’alternativa nella quale respira poliedricità, comprovata da quello che è il susseguirsi del sopracitato jazz, quello che attraversa l’incedere di Radà, con i suoi effetti sorpresa, rappresentati dai suoi molteplici stop, di una mai perduta vena metal come quella di Ten Harpoon’s Ritual e Mombu Storm (come da titolo), o di riletture di balli di gruppo, come in Regla De Ocha, forse la composizione che, nella sua frenesia, tende maggiormente alla voglia di far ballare. Riuscendoci, senza alcuna imposizione. Se poi ci si aggiunge, nella stesura dei fiati, quello che si può definire un citazionismo per nulla banale a Dana Colley, dei mai dimenticati Morphine, in particolar modo in un brano come Stutterer Ancestor, eccoci di fronte ad un esperimento che affascina, che incuriosisce, che rapisce e che riesce maggiormente nel suo obiettivo, rispetto al risultato raggiunto poco prima dai Germanotta Youth.
Benvenuti nella giungla, e non cedete alla paura che possono incutere quelle voci lontane. Per questi tamburi è tempo di rullare, per gli ascoltatori è tempo di scatenarsi!
Gustavo Tagliaferri per Mag-Music
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