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Quando Mayo era chissà dove a fare cappuccini (è quel che ho letto in giro), uscito già da tempo dagli insuperati Sottopressione, l’hardcore italiano non stava certo fermo a gustarsi le mutazioni laccate anni ’80 dei gruppastri neo synth. C’è stato un periodo in cui tutti ma proprio tutti hanno scoperto che bisognava rendere qualcosa a Rettore. Proprio lei: la terribile Donatella. Era la fine degli anni ’90, se ci pensate, molto prima che “indie” diventasse il suono dei miei peti. Ecco, proprio questa fase che nessuno si sarebbe atteso e che presto sarebbe refluita nel post-tutto filo-ottantiano degli hipster da periferia che vi scassano il cazzo con orrende canzoni, era vilipesa negli squat, nei centri sociali, nei cortili e sulle rampe da skate da punk incazzati che in vent’anni non avevano mai smesso di organizzarsi-produrre-suonare-protestare.
La Crisi nasce nel 2003 quando Mayo torna con la carica che forse aveva perso o soffocato per opera dello stesso, di suo fratello (tuttora alle chitarre) e del noto Diste, ex-Sottopressione anche lui. Gli esordi sono una roba incredibile. Chi ha più o meno la mia età se li ricorderà come un gruppo che sprofondava orgogliosamente nell’underground più sanguigno dell’HC milanese. Io me li ricordo aprire assieme ai Modern Life Is War una data dei Converge al Rolling Stone di Milano. Facile fare battute ma la verità è che per quanto fossero pochi i metallari interessati alla loro esibizione, il pubblico dei Converge non era esattamente composto da fan dei Gamma Ray, ecco, diciamo così. Per di più non è che quel locale avesse un suono fantastico. Sì è capito troppo poco sia della loro breve esibizione, sia di quella dei Modern Life Is War per non parlare dei Converge che quella sera dovevano essere un bel po’ stanchi. Io avevo circa vent’anni, forse meno, e per me fu semplicemente un concerto della Madonna. Poi è chiaro che è dura affrontare un pubblico slayeriano soprattutto quando tutti assaltano il banchetto dei bostoniani e tu resti con toppe, spille, e vinili invenduti. Ma anche questo è hardcore e – meglio tardi che mai – sono felice di averlo scoperto prima che arrivi la sindrome delle radici blues. Che arriva per tutti, niente da fare.
Ma torniamo a noi. I primi dischi della band (che all’epoca del concerto credo promuovesse il primo e fantastico disco omonimo) sono fortemente hardcore, del tutto depurati da ogni concessione ai tecnicismi chitarristici un po’ East Coast del vecchio Oddone dei Sottopressione. Il suono era più semplice, più old school se vogliamo, profondamente pervaso da un cinismo e una disperazione che rispondeva senza omologarsi alla coeva esperienza hardcore-metal di molti disperati figliocci di Neurosis, Converge, Botch, Breach, eccetera. Sì perché, per quanto Mayo insista, La Crisi è molto robusta nelle chitarre, molto fragorosa pur senza concessioni esplicite al metal. Succedeva anche nel devastante “Tutti a pezzi” del 2008 (che nel mio cuoricino doppierà sempre il “Tutti pazzi” dei Negazione) e prosegue seppur con qualche distinguo anche in questo nuovo disco. Tralasciamo i sette pollici e altre pubblicazioni collaterali sennò rischiamo il nerdismo.
Questo disco come il precedente è stato prodotto niente meno che da Kurt Ballou dei Converge presso il suo tempio sonoro Godcity Studios, vera Mecca per ogni band più o meno metalcore. E non è che si possa dire che Mayo sia fan di quelle cose apocalittiche, introspettive, catartiche e bassi schiantati al suolo, anzi. Soprattutto, nei La Crisi vien facile riconoscere il suono sconquassante della Washington D.C. di trent’anni fa. Minor Threat per irruenza, ma soprattutto Bad Brains per il riffing aggressivo e la velocità a rotta di collo. Il resto è solo tombola musicale: “Ce l’ho, mi manca”. In pochissimi giorni i ragazzi provano, incidono e mixano questo terzo capitolo che mostra come il tempo non migliori affatto le cose. Mayo urla ancor più che nel precedente disco, segno questo che si può stridere con una bella voce naturale e poi dimostrare di non aver programmato nulla del genere. Che è un po’ la sostanza stessa dell’HC cioè “tutti dentro, subito”.
Urgenza espressiva, depressione deflagrante, cinismo mutato in pugni chiusi, ansia (fuori dalla porta) che innesca la rabbia quotidiana, paure e magoni che sfibrano l’anima. Il tutto in un disco HC che non deve né rispondere a esibizionismi retro, né adeguarsi a un trend velleitario e progressivo.
Ca**i in faccia, merda nel ventilatore, birre in aria, urla belluine.
Quello che apprezzo di più della band è come nonostante i testi ispiratissimi e introversi sempre pronti a illustrare situazioni nelle quali si palpa con mano il senso di disfatta e la voglia di reagire, non si sconfini mai nell’estremo pur infilando in un disco quattordici velocissime e durissime canzoni. Profondamente old school in questo, classe da vendere quando c’è un po’ troppo metal in giro per bandane e skate.
Meglio del disco precedente, stupisce il risultato estremamente live e la resa grezza del sound. Hardcore e nient’altro.
Autoprodotto (hanno lasciato la Hurry Up! Records), lo trovate a fine concerto al banchetto della band.
Nunzio Lamonaca
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