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Quella dei Ramesses è una storia fatta di dischi, dischetti, vinili sette pollici, demo, split e tante droghe nella fantastica brughiera britannica a sognare apocalissi psichedeliche e oscure cavalcate dal cielo che non arriveranno mai. Più inglesi del the e delle lentiggini rossastre i Ramesses hanno quello che si potrebbe pure definire il grande merito di mostrare disco dopo disco una discontinuità che può tradursi solo in poche ipotesi di produzione musicale. E cioè: o sono troppo presi da altro e allora “dàgli che dobbiamo fare in fretta qua con i cavi, col mastering che c’ho la macchina in doppia fila, le bimbe a danza e la moglie a pilates” (e questo, a dispetto di quanto in realtà non sembri, è molto più hardcore che chiudersi in una casetta nella campagna del Dorset a trombare locandiere e fumare erba in attesa del prossimo riff), oppure molto più semplicemente sono talmente fatti di troppe cose tutte insieme che la più banale pretesa di continuità va a farsi benedire.
Dico questo a ragion veduta perché, sapete, non è cosa da poco farsi concedere i diritti (ammesso che vigano consuetudini del genere nel mondo del doom metal) dai fratelli Chapman (Jake e Dinos) per la copertina del mini “Baptism of the Walking Dead” e del successivo “Take the Curse” (copertina e packaging!) e poi tornare con un disco del genere che li ritrae in copertina dal vivo in studio, probabilmente durante la pausa cannetta-birretta (ma che dico, si fa mentre si suona!) e che è la cosa più sporca che mi sia mai capitato di ascoltare. Ok, i live dei primi Mayhem non fanno testo, ma la sporcizia contenuta in questo disco è sconvolgente e insostenibile. Poi, devo ammetterlo, uno fa di tutto per regolarsi su un promo di sole quattro tracce, ma quando vedi che non ce la fai devi ricorrere ad altri metodi per avere una visione del disco in tutta la sua interezza.
Inutile dirvi che alla fine cambia poco, allunghi solo il brodo del disco a pezzi sconquassanti e interminabili ma va bene lo stesso. Sol Nocivo inizia con la stessa sirena di War Pigs (è inutile, l’eredità è sempre la stessa e il sortilegio del doom è duro da sconfiggere) e procede per nove lunghi minuti affidando la guida a un’unica lamentosa litania di chitarra. Non è che i Ramesses ci sappiano fare poi tanto con gli strumenti e la stessa cosa si ha anche in Plague Break. La forma canzone è ormai sconvolta, è una macabra processione di narco-satanici officianti del Male, e pure un po’ punkabbestia. È questa in fondo la cosa che sconvolge. Uno dal doom si aspetta roba un po’ diversa, mica crede di potersi imbattere in un gruppo così realmente sporco, storto e deviato. Giuro, la bellezza del disco sta proprio nella sua intensissima stortura, nella sua sporcizia più esistenziale che oggettiva e nel totale rigetto antiumano che ne viene in superficie. E in tutto questo marasma salta pure all’orecchio che hanno un po’ abbandonato voci ruggenti e urlate per affidarsi a vocalizzi più paranoici. Immaginate un po’ il livello di guardia che deve tenere un ascoltatore medio. In effetti, a forza di ascoltare il disco salta subito all’orecchio la desolazione del sound, non a caso accentuata da una produzione in costante riverbero, da echi pazzeschi e da una povertà di mezzi tremenda. Poteva essere una qualsiasi jam del periodo SST tra i Black Flag di “My War” e chissà che gruppo deviato. Più o meno.
Altro che sapori vintage, echi stoner e nebbie violacee. Altro che fanghiglia sludge e groove alla Motörhead, qui ci si fa del male. Satanici, oscuri e probabilmente pure cockney, ‘sti stronzi. Me li immagino che bevono birra al pub mentre guardano la partita.
La classe operaia (non) va in paradiso.
Nunzio Lamonaca per Mag-Music
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