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Dopo l’ambizioso progetto di dar musica a “Il fuoco”, film muto del 1915, i Giardini di Mirò decidono di tornare alla loro forma mentis ideale, scendendo a patti con loro stessi e, come si evince dal comunicato, incidendo un disco che sa tanto di ritorno, nonostante la band non sia certo tra le più anziane in circolazione (il primo dei cinque dischi registrati risale al 2001). Sicuramente, però, si può parlare di baluardi di un certo modo tutto anni zero di intendere il (post)rock.
“Good Luck”, questo il titolo del nuovo album, è probabilmente l’antitesi de “Il fuoco”. In effetti, se quest’ultimo cercava di deragliare dalla forma canzone, il primo citato si presenta sorprendentemente (e spontaneamente) pop. Ma attenzione: tanto pop quanto freddo, duro e crudo. Perché con “Good Luck” non si ritorna semplicemente ai tempi di “Dividing Opinions”, dove lo sguardo serio dei cinque di Cavriago era allietato da un senso deciso di speranza: qui la canzone viene sviscerata e sputata con nevrosi e decadenza. Letto in questa chiave, l’album riesce a donare deliziosi momenti di matura e razionale intimità, sempre suonata in tutto e per tutto e mai accompagnata dall’elettronica, semmai dal valore aggiunto di fiati e archi. Tutti e otto i brani si presentano in una forma secca, svestita da impurità ed essenziale più che mai. L’incipit di Memories è emblematico in questo senso, nel suo viaggiare acustico e spirituale che sembra quasi una confessione; certo, non mancano le sfuriate potenti e prepotenti che caratterizzano il sound della band (ora anche vagamente e forse non volutamente shoegaze): Spurious Love cavalca decisa e cerca di unire nel miglior modo possibile il post-rock alla forma canzone; Rome parte tenebrosa e finisce tempestosa, tanto che a me ricorda il Michael Gira dell’ultimo album dei suoi Angels of Light; Time On Time ha un tipico incedere motorik e nel bel mezzo decide di esplodere maestosa; la conclusiva Flat Heart Society è addirittura cattiva e crudele nel suo innalzarsi, fin quando, nel finale, ti spezza in due e chiude il disco lasciandoti perplesso e con l’animo mutato. Doveroso appuntare la partecipazione di Angela Baraldi in Spurious Love (che sfodera anche le chitarredi Stefano Pilia) e in Rome, di Sara Lov dei Devics nell’apparente calma di There Is a Place. Unico e solo pezzo strumentale è la title-track.
Ok, non sarà certo questo il tassello definitivo della carriera dei Giardini di Mirò, eppure “Good Luck” funziona bene, nonostante questo senso opprimente di oscurità, dopo ripetuti ascolti, stanchi un po’. Ma si sa, “Good Luck” non è un “buona fortuna” qualsiasi: è l’augurio più sincero che possa arrivarci, ideale per gente che tiene gli occhi aperti, e che non s’illude.
Davide Ingrosso
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