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Quello del 16 maggio al Circolo degli Artisti di Roma è un vero e proprio appuntamento con la storia. Fanno tappa a Roma, infatti, per la prima data italiana della loro carriera, i seminali Sleep, riconosciuti da più parti come la band stoner/doom definitiva e autori di capolavori lisergici quali “Sleep’s Holy Mountain” e “Dopesmoker”. L’evento si fa ancora più ghiotto se ad aprire la serata sono chiamati gli A Storm of Light di Josh Graham, fondatore dei Red Sparowes e collaboratore, tra gli altri, dei Neurosis.
Alle 21 il Circolo degli Artisti è già pieno di metallari pronti ad assistere a un concerto storico. L’età del pubblico è decisamente eterogenea, così come la provenienza. Non solo romani, ma anche tantissimi spettatori che hanno macinato chilometri per il primo show italiano degli Sleep. Non a caso, come avviene sempre per eventi tanto attesi, il banchetto del merchandise è letteralmente preso d’assalto.
Sono da poco passate le 21:15 quando tocca agli A Storm of Light cominciare a scaldare il numeroso pubblico del Circolo e, come immaginabile, la band riesce pienamente nel suo intento. I quattro di Brooklyn creano un muro sonoro da pelle d’oca e in poco meno di tre quarti d’ora sciorinano ottimi brani riuscendo a creare un’atmosfera suggestiva, permettendo così anche a chi non li avesse mai ascoltati prima di assistere al loro set senza distrazioni, carpendone ogni singola nota. Sugli scudi soprattutto il bassista Domenic Seita, capace con lo strumento e costantemente dedito ad un headbanging massiccio. Il pubblico dimostra di apprezzare.
Venti minuti circa di cambio palco, a cui comunque prendono parte gli stessi Al, Mike e Jason, e finalmente è il turno della storia: Sleep. Difficile descrivere a parole l’atmosfera creatasi al Circolo degli Artisti nelle quasi due ore di set della band californiana. Definire il tutto lisergico o psichedelico sarebbe sin troppo riduttivo. Il trio ha letteralmente portato tutto il pubblico in un’altra dimensione. Un biglietto di sola andata per un universo parallelo fatto di suoni pachidermici e ridondanti. Un muro di suono senza fronzoli che rapisce l’udito e lo distrugge con colpi lenti, decisi, interminabili.
La band è visibilmente su di giri e “stoned”, come testimonia la canna che Al passa al pubblico all’inizio del concerto, la cui setlist da urlo, peraltro, pesca a piene mani da quel capolavoro che risponde al nome di “Sleep’s Holy Mountain”. Pezzi del calibro di Dragonaut e From Beyond si scagliano sul pubblico inerme, preda dei suoni della band. Jason Roeder è un metronomo perfetto, ideale traghettatore della nave Sleep verso inferni lisergici ancora sconosciuti. Al Cisneros, con il suo Rickenbacker distorto e la sua voce spettrale, è quanto di più ipnotico si possa vedere su un palco, e a ciò senz’altro contribuisce il suo sguardo abbondantemente ipnotizzato, per usare un eufemismo. Matt Pike, poi, è a dir poco mostruoso nello strapazzare la sua chitarra scandendo ogni singola, lenta, nota.
Le due ore di concerto scivolano via che è una meraviglia, grazie anche alla riproposizione live dell’intero “Dopesmoker”, il brano/album con cui la band ha cominciato e terminato il suo show.
Alla fine, si resta con l’impressione di aver assistito a un evento mitologico, ma soprattutto con la certezza di aver detto arrivederci, con buona pace, a un po’ del proprio udito davanti ai mastodontici suoni degli Sleep.
Foto di Enrico Mantovano
Livio Ghilardi
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