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Con un po’ di ritardo (e mi scuso per questo) arriviamo dalle parti di una delle band che, in un modo o nell’altro, è impossibile non notare in questo 2012 dove la parola “hipster”, tutto d’un tratto, la si pronuncia come mai prima d’ora ed anche strumentalizzandola, alle volte. In mezzo a tutto questo ciclone d’estetiche, suoni e avventurosi media e mezzi di comunicazione c’è sicuramente il giro sotterraneo di Brooklyn, da dove vengono pescati i Friends. Già dallo scorso anno girano viralmente brani inediti e video che aumentano l’attesa, poi si arriva all’uscita del debutto “Manifest!” (il 4 giugno su Lucky Number) e di recensioni positive ne escono a bizzeffe. Così come arriva prontissimo il votaccio negativo di Pitchfork che, se butta giù alcuni, senza dubbio mette curiosità ad altri.
Al contrario di quanto si potesse in origine pensare, quello dei Friends non è un album dall’impatto immediato: se singoloni catchy come I’m His Girl e Mind Control, giocati tutti sui movimenti funkeggianti del basso e sulla voce sinuosa, riescono a prenderti subito e a far muovere le gambe d’istinto, lo stesso non fanno la maggior parte degli altri brani, almeno nei primi ascolti. Provo a fare un esempio con il trittico A Thing Like This–A Light–Ideas On a Ghost, giocate non solo sulla sensualità virata weird, ma anche su un refrain accattivante, emozionante e cool, tanto da riportare alla mente quel periodo disco-pop a cavallo tra gli anni ’70 e gli ’80 di Blondie e cose di questo genere. Il tutto tra un’attitudine che, vuoi o non vuoi, deve ricordarsi per forza del punk, infarcita da tentativi di far diventare l’esperimento più dreamy (le tre prima nominate e Stay Dreaming), o più sperimentale e “sveicolato” (Ruins e Proud/Ashamed).
Il classico album che, se far per voi, tanto di guadagnato, altrimenti animo in pace e lasciate stare.
Davide Ingrosso per Mag-Music
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