Mamma ho perso la reunion, parte uno.
Annata dopo annata, il turbine di rimpatriate si fa sempre più forte d’intensità. Agire in solitario o starsene in disparte dal mondo musicale non sempre ha una lunga durata, effettivamente. Ma non è anche detto che quelle stesse rimpatriate abbiano automaticamente in comune una certa passione in quello che si fa. Anzi, a volte l’odore che si sente è quello del denaro frusciante, e il manierismo, come nel peggiore dei casi l’incompetenza, ha la meglio su un talento che sembra essersi stanziato su posizioni scomode e non adatte, indipendentemente dal fatto che ciò avvenga in Italia o all’estero. Altre invece sono avvolte da un alone che non chiarisce se e soprattutto quando si avrà la possibilità di ascoltare un full-length nuovo di zecca.
I Garbage non fanno di parte di quest’ultima opzione, ed è inevitabile che in questa lunga fila, complice anche il ritorno in scena del produttore e batterista Butch Vig, sia giunto anche il loro turno, essendo stati fermi dal 2005, singolo Tell Me Where It Hurts a parte. Un turno che, per un album come questo “Not Your Kind of People“, comprende decisioni basate sull’autoproduzione, come la nascita dell’etichetta Stunvolume, fatta per soppiantare le major un tempo loro vicine. E che al contempo li riporta sulla scena con una veste attualizzata, già notata con l’ausilio del battere e levare del buon singolo Blood for Poppies.
Un episodio che è parte di un meltin’ pot dove ci si può aspettare di tutto: la bizzarra, eppure ipnotizzante, elettronica di Automatic Systematic Habit, il power rock di Big Bright World (quello che Maria è stato per i Blondie?), le ballate Sugar e Beloved Freak e l’insospettabile title-track dal retrogusto beatlesiano da una parte. Poi ci sono la graffiante Felt, l’oscura Control e Battle in Me, quanto di maggiormente vicino ai Garbage che furono, che sono indubbiamente i punti di forza dell’album, assieme a I Hate Love, che vede fondersi la dolce voce di Shirley Manson con un arrangiamento dai tocchi sognanti, mentre il punto più basso viene raggiunto sicuramente con Man on a Wire, un brano incompleto, il cui bridge non rende giustizia a un ritornello passabile.
È chiaro che l’ascolto complessivo non provochi particolari problemi, anzi, svela un album piacevole, proprio grazie a brani come quelli di cui sopra, che mostra il quartetto per nulla privo di cartucce da sparare. Il problema semmai è la latenza di quel quid che ha permesso ad album come l’esordio, “Version 2.0” e “Bleed Like Me” di raggiungere ottimi livelli, mentre qui siamo dalla parte della sufficienza, se non di più. Ma, ad ogni modo, se si dovesse fare il paragone con ulteriori nuclei sonori capeggiati da donne, è indubbio come “Not Your Kind of People” si regga in piedi con più facilità rispetto a “Bel Air” dei Guano Apes. Che questo nuovo inizio possa considerarsi utile per un futuro capace di donare nuove soddisfazioni? Per essere quattro persone sulla soglia della mezza età venute ieri per guardarsi allo specchio oggi, l’augurio è scontato.
Gustavo Tagliaferri
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