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A poche settimane dall’uscita di “Supersonicspeedfreaks“, prodotto dalla Black Widow Records, i Witche’s Brew ci dicono di più sul loro lavoro più impegnativo.
Com’è nata l’idea di avviare un progetto così impegnativo come quello che ha portato alla luce “Supersonicspeedfreaks”?
Mirko Zonca: Hai detto bene, un’idea. E come tutte le idee, nascono in maniera embrionale e man mano prendono forma. “Supersonicspeedfreaks” è un po’ la nostra creatura alla Irvin Yeaworth (regista del film cult “Blob – Il fluido che uccide”, ndr): in maniera analoga è uscita dal nulla ed è cresciuta inglobandoci letteralmente. Un album tradizionale sulla carta, con le aspettative del caso, affrontato a livello di stesura a un anno di distanza dall’uscita di “White Trash Sideshow“.
Mirko Bosco: Quello che, appunto, sulla carta rappresentava né più né meno un tradizionale step di una band, si è spinto oltre. L’album è per l’appunto una creatura poliedrica e multiforme, dove la canonicità convive con l’assenza di regole. Un visionario “centopiedi umano”. Abbiamo cercato di innestare con minuzia chirurgica le singole caratteristiche degli ospiti in brani che, a parte qualche caso isolato, erano stati scritti per ben altri intenti.
Mirko Zonca: Gli arrangiamenti hanno giocato un ruolo fondamentale nello sviluppo dell’album. Se da una parte le tracce godevano già di una struttura predefinita; erano già state pensate, affrontate e sviluppate, dall’altra c’era l’esigenza di immaginarle arricchite nell’esecuzione da personalità esterne anche lontane dall’universo Witche’s Brew.
Com’è nato il titolo “Supersonicspeedfreaks”?
Mirko Bosco: C’è un riferimento ben preciso a “Pentatonicspeedfreaks”, la nostra prima creazione.
Mirko Zonca: L’idea era proprio quella di omaggiare un disco, ormai introvabile, che per noi ha rappresentato molto, con un lavoro scritto e sviluppato in un futuro che probabilmente non abbiamo ancora vissuto. I Witche’s Brew sono costantemente in viaggio, metaforicamente parlando; era necessario dare quel senso di continuità, di genesi e di sviluppo. “Pentatonicspeedfreaks” era, ed è, un disco furioso, live, ruvido e sfacciato. Un passaggio comunque obbligato per una band come la nostra. Un capitolo ovviamente fondamentale, da cui magari staccarsi per evitare che potesse tramutarsi nel nostro “giorno dei trifidi” (romanzo di fantascienza dello scrittore inglese John Wyndham pubblicato nel 1951, ndr).
La Black Widow Records ha reso possibile l’ingaggio di un vero dream team di artisti. Com’è stato convogliare così tante energie verso un unico intento?
Mirko Zonca: È stata la cosa più stimolante dell’intero lavoro: contattare i personaggi, proporre, esporre l’idea… ricomincerei domani. Abbiamo avuto la fortuna di lavorare con grandi personalità, artisti di calibro con cui rapportarsi e intraprendere un percorso che, per quanto breve, ci ha sicuramente aiutato a crescere. Abbiamo scelto, in stretta collaborazione con l’etichetta, tutte le nostre “vittime” strada facendo, creando spesso le situazioni ad hoc per poter ottenere il meglio da ciascuno di loro.
Mirko Bosco: “Vittime”, scelte e seguite con la tipica meticolosa attenzione di Muñoz Ramirez (serial killer statunitense, ndr). Ricky Dal Pane, Paolo Negri, Martin Grice, Steve Sylvester, J.C. Cinel… sono tutti personaggi incredibili d’indubbia capacità e caratura artistica. Credo si siano amalgamati bene e in maniera armonica. Quello che colpisce è comunque l’umiltà degli ospiti che si evince dal risultato finale. Nessuno di loro ha cercato il protagonismo fine a se stesso, anzi.
Tra gli ospiti spicca, senza dubbio, la presenza del mitico Nick Turner. La scelta di farlo suonare nella “sua” Children of the Sun di chi è stata?
Mirko Bosco: Sua!
Mirko Zonca: No, in realtà è tutta “colpa” di Massimo Gasperini (titolare della Black Widow Records, ndr). Avevamo intenzione di approntare una cover degli Hawkwind. Ovviamente, le ipotesi riguardavano passaggi della band inglese più affini al nostro sound, come Brainstorm, Silver Machine… Evidentemente cimentarsi in quei territori sarebbe stato per noi troppo facile e scontato. Massimo propose Children of the Sun, una sorta di ballata acustica ben lontana dal nostro trend. È stato divertente accettare la “sfida” e, soprattutto, riuscire a portarla a termine. Una volta affrontata Children of the Sun ci è stata servita, sempre da Massimo, la testa di Nik Turner su un vassoio d’argento. Sapere che l’autore del brano in persona avrebbe dovuto interpretare, quarant’anni dopo, una versione rielaborata da noi, è stato come subire un electroshock.
La parti vocali in “Supersonicspeedfreaks” sembrano aver acquisito un ruolo diverso rispetto al passato.
Mirko Bosco: Questo è ovvio. Escluso gli episodi interamente dedicati a Steve, a Turner e a J.C., abbiamo pensato di delegare a Ricky Dal Pane (Buttered Bacon Biscuits) l’onore di rielaborare le linee vocali. Siamo molto soddisfatti del suo lavoro. Al di là delle sue indiscusse capacità, Ricky credo sia una delle voci migliori in Italia nel panorama rock. C’è da sottolineare il suo impegno nel cercare di “interpretare” e non di “eseguire”.
Mirko Zonca: C’è una differenza sostanziale fra questi due tipi di approccio. Ricky, durante la costruzione di “Supersonicspeedfreaks”, si è calato completamente nella parte, ha assimilato i testi quasi fossero suoi. Ricky in quel periodo è stato un Witche’s Brew a tutti gli effetti. Rispetto a “White Trash Sideshow” abbiamo cercato di curare maggiormente l’aspetto estetico del cantato: mi sono fatto da parte per ottenere il massimo da quest’aspetto.
C’è stato un cambio di sound tra “White Trash Sideshow” e “Supersonicspeedfreaks”. Cosa puoi dirci in merito?
Mirko Zonca: Due facce della stessa medaglia. “White Trash Sideshow” è violento, diretto. “White Trash Sideshow” sta all’eleganza come Shiro Ishii (medico giapponese responsabile di sperimentazione umana e crimini di guerra, ndr) sta alla medicina. È la nostra parte Hyde che si manifesta ancora oggi non appena ci si avvicina a un palco.
Mirko Bosco: Le componenti essenziali di “White Trash Sideshow” vengono comunque mantenute anche in questo lavoro; una certa predisposizione alle furiose cavalcate lisergiche accomuna i due dischi. È come se “Supersonicspeedfreaks” voglia raccogliere l’eredità del predecessore, evolvendola. Il risultato credo sia curioso: una buona commistione tra soluzioni sofisticate che rasentano il “prog” (molto fra virgolette), e la tipica aggressività latente che ci ha sempre caratterizzato. C’è un dottor K dentro ognuno di noi. E quest’album è la risultanza dei nostri esperimenti.
Quando ho ascoltato “Supersonicspeedfreaks” sono rimasto letteralmente sconvolto dalla ricchezza musicale dell’album. Quali sono le band che maggiormente vi hanno influenzato nella costruzione di questo colosso? Oltre agli Hawkwind, naturalmente.
Mirko Bosco: Potremmo annoiarti e annoiare i lettori con la solita sequela di nomi, riferimenti più o meno scontati: Piu’ che ovvi, aggiungerei. Credo che l’apertura mentale totale e la conoscenza approfondita dell’universo musicale siano indispensabili per cimentarsi in un songwriting credibile.
Mirko Zonca: Verissimo. Importanti gli Hawkwind, senza dubbio. Ma del resto, come Nino Ferrer (noto cantante francese di origine italiana, ndr), musicalmente parlando, i Witche’s Brew sono un concentrato d’influenze curiose e poco convenzionali. Non abbiamo dei punti di riferimento precisi, e forse è meglio così.
I testi hanno una poetica dura, nuda e cruda. Puoi dirci di più?
Mirko Bosco: Non amiamo i mezzi termini, questo è vero, quindi potremmo definirci abbastanza lontani dalla corrente dell’ermetismo. Questo è un dato assodato. Detto questo, posso dirti che apprezziamo molto Domenico Tempio (poeta italiano, ndr) e non vedo per quale motivo non dovrei citarlo….
Mirko Zonca: I nostri testi, specie all’estero (anche perché, solitamente, il pubblico italiano prende in considerazione solo le liriche di Vasco e Ligabue, il resto passa inosservato), hanno suscitato le più diverse e contrastanti reazioni: C’è chi si è indignato, e chi ha saputo leggere tra le righe. Ovvio, le nostre parole descrivono fatti realmente accaduti, particolarmente cruenti o morbosamente curiosi: mi rendo conto che, di primo acchito, potremmo essere etichettati come macabri, depravati… e magari, inconsciamente, lo siamo. La realtà è che noi trattiamo la quotidianità, la spettacolarizzazione stessa della sofferenza. In ogni tragica vicenda c’è sempre un risvolto nascosto, un piccolo aneddoto che smorza la tensione. I veri depravati sono quelli che praticano il turismo sulle scene dei crimini. L’Italia non è immune da questo fenomeno, anzi. Il più delle volte si sbatte il mostro in prima pagina, ma non per lapidarlo; esiste un culto malsano nel trasformare criminali in showman.
Adrian Nadir Petrachi
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