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Musicista e produttore, con un passato che guarda all’hip-hop (La Comitiva) e alla nuova canzone d’autore (Tiromancino e la sua carriera solista). Incontriamo Riccardo Sinigallia, in tour con la moglie – e bassista – Laura Arzilli (ex Tiromancino), qualche ora prima del suo concerto al Marianiello Jazz Cafè di Piano di Sorrento.
Erano anni che non facevi concerti.
In verità ho fatto una serie di concerti chitarra e voce, da solo: prendevo la macchina e andavo. Ne ho fatti una cinquantina. Però, forse, non ne facevo dal 2009. Quando sono stati gli ultimi concerti che ho fatto chitarra e voce? (chiede alla moglie, ndr) 2007? E poi basta? Ah.
Hai spostato l’attività di produttore.
Faccio il casalingo (ride, ndr). Aiuto Laura nella gestione della casa. Ho fatto anche produzioni come Luca Carboni (l’album “Musiche ribelli”, ndr), collaborazioni con i 24 Grana (l’album “Ghostwriters”, dove Riccardo canta nel brano Avere una vita davanti, ndr), e il disco di Filippo Gatti, che non uscì per via d’un impiccio con la Sony. Forse ha trovato il modo di pubblicarlo con la sua etichetta, la Sunny Beat di Carlo Martelli. Carlo, che rappresenta una specie di miraggio, merita molta considerazione: a Roma è l’unico che è riuscito a fare qualcosa di significativo in questi anni di deserto, dando alle stampe il disco di Filippo (“Il pilota e la cameriera“, ndr), quello di Francesco Zampaglione (“Un uomo e…“, ndr)… E poi ho prodotto Coez, che sta per uscire con la Carosello Records. È un ragazzo che fa rap dell’ultima generazione. Abbiamo fatto un disco che prende spunto da tutto il suo percorso di MC che però, per sua volontà, si è svincolato un po’ dalle forme tipiche del rap e cerca di scandagliare un po’ la forma canzone.
Un po’ come accadde, qualche tempo fa, con La Comitiva?
Esatto!
Questa tua passione per le contaminazioni da dove nasce?
Sono cresciuto ascoltando le radio commerciali, all’epoca fortunatamente si poteva sentire in radio Bennato, De Gregori, ogni tanto De Andrè e Paolo Conte. Insomma, avevi la possibilità di una programmazione varia, che ti permetteva di ascoltare Umberto Tozzi e l’Alan Sorrenti di Figli delle stelle, ma anche altro. Era considerata “musica popolare”, musica pop, ma aveva una profondità e un’energia che non era solo formale e produttiva, ma veniva da dentro, dal profondo dell’essere umano; cose che adesso mancano sempre di più nelle radio. L’unica musica interessante che esce dalle radio ultimamente viene trasmesse dalle stazioni che parlano di calcio: può capitarti d’ascoltare un pezzo degli AC/CD o uno dei Rage Against the Machine.
Di recente la Ford ha utilizzato in uno spot un pezzo degli Hawkwind, Master of the Universe.
Le pubblicità ultimamente tirano fuori della roba interessante. Siamo al paradosso totale.
Già.
E poi, per chiudere il discorso contaminazioni, vi sono le due grandi rivoluzioni musicali a cui ho assistito da giovane: la musica elettronica e il rap, a fine anni ottanta.
Qualche nome particolare che ti colpì all’epoca?
Tantissimi. Nel rap potrei citare Cypress Hill, Wu-Tang Clan, che per me sono stati fantastici, ma anche Michael Franti all’inizio. Nella musica elettronica, dai Portishead ai Chemical Brothers, da Aphex Twin ai Massive Attack.
Aggiungerei gli Almamegretta.
Gli Almamegretta in quegli anni erano uno dei gruppi più importanti nel mondo. Credo che i loro concerti nei primi anni ’90 erano più belli di quelli dei Massive Attack, solo che poi negli anni la formazione si è un po’ persa e adesso li ritroviamo a Sanremo con vent’anni di ritardo! (ride, ndr)
Quindi, da queste due anime, è nato un disco come “La descrizione di un attimo”. Un disco che, con dodici anni alle spalle, suona ancora molto attuale.
Quando i dischi come questo rappresentano in maniera molto limpida le persone che lo fanno, è difficile che poi subiscano il tempo che passa. Voglio dire: tutto quello che fotografa un tempo determinato, dai suoni al linguaggio, in quanto fotografia non invecchia. Invecchiano invece le cose che fai per essere contemporaneo a tutti i costi: inesorabilmente si scopre che hai il “parrucchino”. Ma c’è un lato del “parrucchino” interessante, come quello di Lucio Dalla, che quando t’incontrava se lo levava come fosse un cappello!
Il tuo primo disco solista è l’ideale prosecuzione de “La descrizione di un attimo”.
È il disco di un musicista che si esprime liberamente. Nel secondo (“Incontri a metà strada”, ndr) invece c’è un compromesso: la critica più frequente verso il primo album era verso l’atmosfera scura, spesso criptica delle canzoni. Non l’ho subita parecchio, quella critica: sebbene mi fossi detto “cerchiamo di fare qualcosa che possa piacere, oltre che ai malati e ai disturbati come me, anche alle altre persone“, non ci sono riuscito! Ho fatto un ennesimo disco di ricerca di questo compromesso (ride, ndr). Sono due dischi riusciti, però mi rendo conto che per il pubblico italiano sono stati un po’, come dire, indipendenti, nonostante fossero usciti per la BMG e la Sony. Indipendenti come produzioni, quasi fossero dei quadri di un pittore.
Sono passati sei anni da “Incontri a metà strada”, è in cantiere il seguito?
Sto cercando di chiudere la trilogia. Ci sono quasi, penso di avere le canzoni, forse me ne mancano un paio per essere veramente soddisfatto. Spero per settembre di farcela.
Hai curato la colonna sonora del film “Paz!” di Renato De Maria. Che ricordi hai di quell’esperienza?
Bellissimi, perché fu un’esperienza ricca di suggestioni. Fu bellissimo rivisitare Pazienza in un’ottica più leggera. Mi sentivo responsabilizzatissimo.
Fai parte del progetto Deproducers. Ascoltai tempo fa la cover di Figli delle stelle, contenuta in “Planetario”, e pensai che fosse uno scherzo, quasi un divertissement.
La cover di Figli delle stelle già la facevo nei miei concerti da qualche anno, perché una critica che mi ero fatto da solo era quella di non essermi mai cimentato nelle cover. Lo vedevo come un grande limite, perché da quando ho iniziato a suonare mi sono buttato subito sulla scrittura, e non mi sono mai misurato con i pezzi degli altri. Allo stesso tempo, non mi è mai piaciuto attingere dai repertori dei cantautori da cui attingono tutti: De Andrè, Battiato e compagnia bella. Non solo per una specie di timore reverenziale, ma anche per variare un po’. C’è tanto da scoprire.
Per questo servono le cover.
Esatto, per riscoprire. È inutile fare adesso le cover di Lucio Dalla, potevamo farle prima! (ride, ndr) Mi sembrava interessate riscoprire la bellezza della scrittura di quella canzone, sottolineando la fragilità dell’arrangiamento e della produzione, nonostante si trattasse di una produzione ricca fatta negli Stati Uniti. La grandezza di quella canzone è proprio nella scrittura nuda di parole e accompagnamento. Allora l’ho fatta a modo mio, secondo me in maniera interessante. Negli spettacoli con i Deproducers riscuote molto successo. Fu Casacci (Max, chitarrista dei Subsonica e membro dei Deproducers – ndr), a cui feci sentire la cover, ad avere l’intuizione di metterla nel disco, pur essendo un “fuori pista”!
Foto di Fabio Lovino
Marco Gargiulo
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