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È in una delle prime fredde serate capitoline di novembre che i Local Natives giungono a farci visita in quel del Blackout, in compagnia dei Cloud Control. Un’ottima doppietta per saggiare le capacità di due delle più acclamate band affacciatesi sul mercato discografico negli ultimi cinque anni, rispettivamente alle prese con la promozione degli album “Hummingbird” e “Dream Cave”.
Con apprezzabile ed efficiente puntualità alle 21.45 si dà il via alla serata con i Cloud Control. Una mezz’ora scarsa di set per gli australiani, nella quale tuttavia è possibile apprezzare istantaneamente le doti artistiche di una band che live riesce a lanciare al meglio le frecce alt-pop a disposizione del proprio arco. I pezzi che su disco ci avevano colpito per la loro freschezza e una naturale, spontanea eterogeneità dal vivo diventano ancor più coinvolgenti e catchy. Il pubblico non esita ad acclamare vigorosamente i quattro che, visibilmente emozionati, ringraziano leggendo per bocca della tastierista Heidi Lenffer alcune parole in un discreto italiano. Centralità all’ultimo “Dream Cave”, da cui vengono estratti Scream Rave, Dojo Rising, The Smoke, the Feeling, Promises e la conclusiva Scar, mentre dal precedente e promettente Bliss Release vengono ripescate l’ottima Gold Canary e There’s Nothing in the Water We Can’t Fight. I Cloud Control, in sintesi, sono riusciti a mostrare abilmente il proprio talento con personalità e classe. Ci auguriamo di rivederli quanto prima.
Dopo una mezz’ora di cambio palco tocca quindi ai Local Natives allietare il pubblico. I presenti, numerosi e con una grande rappresentanza di sesso femminile, accolgono con un boato l’arrivo dei californiani on stage. I cinque iniziano con un estratto di “Hummingbird”, Breakers, e si mostrano in palla, per quanto appaia evidente che qualcosa non quadri fino in fondo. Alla fine i due album della band saranno equamente rappresentati, per quanto la differenza qualitativa tra i brani dell’ottimo “Gorilla Manor” e del monocorde follow-up sarà lampante. Tecnicamente impeccabili e più volte alle prese con un’interessante alternanza tra gli strumenti a disposizione, l’impressione è che si atteggino a gruppo oltremodo navigato se comparato a quanto la loro discografia sinora ha concesso. Una sicurezza di sé che, più che entusiasmare e convincere, concede all’ascoltatore più attento la sensazione diavere a che fare con un mero compitino ben realizzato ma freddo e distaccato. Un’energia telecomandata dalla quale è difficile essere conquistati.Per carità, su pezzi come Airplanes, Who Knows, Who Cares, Shape Shifter o la conclusiva Sun Hands è impossibile non concedere ai Local Natives l’onore delle armi: si tratta di canzoni pop ottimamente composte e sulla cui esecuzione dal vivo v’è ben poco da biasimare, anzi. Sul resto del set, tuttavia, c’è poco da entusiasmarsi. Da segnalare anche una cover dei Talking Heads, l’indimenticabile Warning Sign, la cui resa è tutt’altro che memorabile. L’idea è che, con il singolo giusto in mano (e di hit potenziali la band ne ha già in abbondanza), il gruppo potrà fare sfracelli e conquistare definitivamente il grande pubblico. Rimane però una generale innocuità nella proposta che lascia l’amaro in bocca per quanto di buono pregustato con il debutto, e un approccio fin troppo compassato che alla lunga fa sfociare nella noia e in deludenti momenti di stanca. Il prossimo disco sarà veritiero su cosa vogliono essere i Local Natives e su come vorranno realizzarlo. Per ora preferiamo non sbilanciarci troppo, ma una certa artificiosità incontrata nella loro esibizione ci mostra un bicchiere mezzo vuoto e un bilancio tendenzialmente insoddisfacente.
Livio Ghilardi
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