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Quasi quindici anni, così vicini eppure così lontani. Ne è passato eccome di tempo da quel “Fever in the Funk House” che, da Sassuolo con furore, aveva fatto sì che cinque musicisti cominciassero a scuotere gli animi dei più con una formula tanto vicina al rock, a certa psichedelia e noise quanto prossima, di lì a poco, a mescolarsi anche con un’anima soul. Un trascorso, quello dei Julie’s Haircut, che, tra vari cambi di formazione, ha finito per progredire sempre più attraverso una ricerca volta a sonorità sperimentali d’oltreoceano, passo dopo passo, ulteriormente favorita dall’entrata in scena del chitarrista e bassista Andrea Scarfone. Un passaggio che dall’ottimo “After Dark, My Sweet” arriva a quell'”Our Secret Ceremony”, disco dalla duplice facciata, che ha finito per rappresentare il punto d’arrivo di anni di gavetta, affascinante ed al contempo misterioso, oltre che il punto di rottura con il solo ed unico linguaggio classico della forma canzone. Una strada che, dopo quattro anni d’attesa, non può che continuare da dove si era fermata.
Difatti, un album come questo “Ashram Equinox” può essere interpretato, checché se ne dica, quasi come una suite vera e propria, un sogno le cui allucinazioni e visioni sono l’effetto di un viaggio nel tempo, i cui movimenti fanno sì che si evinca l’ennesimo passo in avanti compiuto dai ragazzi, che ne hanno masticato e ne masticano tutt’ora di repertorio del genere, soprattutto teutonico. Ne viene fuori una fantasia che porta con sé Ashram, introduzione alla Popol Vuh che sfocia in una jam supersonica, vagamente amonduuliana, Tarazed e il rotodrumming che riporta alla mente i Neu!, i giochi con l’elettronica che costituiscono l’anima di Johin, una Taarna la cui incessante ritmica lascia spazio a un mantra supersonico con richiami a certi Kraftwerk. E poi ancora Equinox, i cui riverberi celano molto velatamente diversi richiami che vanno dall’India al Medio Oriente nella sua interezza, tanto da confluire in una Sator dove chitarre e note di pianoforte si richiamano a quanto sopra e convogliano a nozze con un fare dreamy, portando ad una Taotie che è kraut alla massima potenza, tra bassi ipnotici e loop vocali tali da portare al minimalismo di poche note ripetute all’infinito, sempre più intenso e variopinto, di una ninna nanna come Han, più che adatta a chiudere l’opera. Ma solo per ricominciare da capo, di nuovo.
Se Luca Giovanardi e soci sembravano aver raggiunto la maturazione definitiva con il precedente lavoro, è evidente come in “Ashram Equinox” le belle sorprese finiscano sempre per essere dietro l’angolo. Ascoltare la sublimazione del repertorio di cui sopra in una chiave meditativa, spirituale, certamente priva di autoreferenzialità fa sì che i nostri continuino ad essere un orgoglio non solo dell’Emilia Romagna, ma anche dello stivale in sé. E, perché no, anche l’estero beneficerebbe di un’esperienza come questa.
Gustavo Tagliaferri
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