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In questo numero: Drama Emperor, Above the Tree & Drum Ensemble Du Beat, East Rodeo, Roberta Cartisano, The Van Houtens, Alfabox, Mia Wallace, Lantern, I Dinosauri, Tomakin.
Drama Emperor – Paternoster in Betrieb (Seahorse Recordings)
Far girare nuovamente il disco, dopo tre anni dal proprio debutto, e, anche solo per meno di mezz’ora, sentire che la propria musica è in continuo cambiamento. Ancora di più se si questi segnali si avvertono da una base campana come quella di casa Seahorse, piccolo grande ricettacolo di influenze di tutti i tipi a cui i tre componenti dei Drama Emperor si sono affidati. Se c’è da ipotizzare un’avventura in quel di Berlino ed immaginare le rispettive fasi da compiere in quel delle Marche, “Paternoster in Betrieb” potrebbe essere l’ideale colonna sonora. Perché il suono che fa da traino riunisce dei Depeche Mode in chiave noir (Second Floor) ai primi Nine Inch Nails (Teknicolor), dà vita ad electro-ballads come Sing Sing Sing, casualmente l’unico momento cantato nella propria lingua madre, contrariamente all’altrettanto valida Riversami, passa dalle parti del post-punk (Dead of Technology, Other Side) e va a caccia di segnali di vita da quella Germania respirata sin dagli inizi, come dimostrano l’ossessivo inno da dancefloor Aber e lo spoken word di Phrase Loop. Un repertorio ridotto, ma molto più che buono, senza alcuno scimmiottamento, ma atto a testimoniare una continua crescita di un progetto che dimostra di avere parecchie carte da giocare, e magari anche di aumentare la posta in gioco! Gustavo Tagliaferri
Above the Tree & Drum Ensemble Du Beat – Cave_Man (Bloody Sound Fucktory)
Il nuovo lavoro di Marco Bernacchia, in arte Above the Tree, è il proseguio del viaggio iniziato con “Wild“. Siamo usciti dal protettivo sottobosco sonoro ascoltato in precedenza e mettendo la testa fuori dal guscio l’ambiente cambia e si fa molto più etnico ed epico, quasi magico. È come risvegliarsi nella Death Valley e vedere avvicinarsi una carovana di indiani, percepirne i suoni ma vederla ancora sfuocata mentre il sole picchia duro e l’aria è bollente. Questa è la sensazione che si ha ascoltando sia Aborigenal Dream che la seguente People from the Cave, e mentre Barbers in Action invece sente pompare i bassi, interessante è Black Spirit forse un po’ lunga ma è il cuore di tutto il lavoro. La conclusiva End of Era è suggestiva quanto portatrice di sventura, perché tutto lascia presagire tranne un bel finale e la conferma arriva dagli ultimi colpi delle percussioni come se fossero gli ultimi battiti del cuore. La collaborazione con Drum Ensemble Du Beat è perfettamente riuscita e porta il progetto ad una nuova evoluzione che si poggia però sempre sulle belle atmosfere chitarristiche, ricche di effetti e di emozioni. Ci chiediamo solo come proseguirà il viaggio e con chi. Daniele Bertozzi
East Rodeo – Morning Cluster (Menart/El Gallo Rojo/Pulse)
Un cane antropomorfo che, come una Sfinge, si erge su un paesaggio infuocato. Inusuale sinonimo per lasciar intendere il contatto tra culture differenti, ma molto efficace quando si tratta di basarsi su qualcosa che si distacchi dall’etnica o dalla semplice musica balcanica. Croazia ed Italia, i fratelli Sinkauz e la coppia Alfonso Santimone-Federico Scettri. Questi sono gli East Rodeo e queste sono le basi per un terzo capitolo in studio come “Morning Cluster“, dove il rischio di avere a che fare con una semplice minestra riscaldata di stampo 90’s viene fortemente rimpiazzato da una Trom pacata nella versione originale e prossima a lasciarsi andare a forsennati turbo-beat una volta diventua Re:Trom, dal pizzichio del basso di Mrs. Cluster che culmina in sfumature di tipo art, da Crni Gad, lento e cadenzato spoken word che finisce per prendere i Tool più sperimentali ed aggiungere una spruzzatina degli ultimi Neubauten, e poi matrimoni di vario gneere: noise, electroclash e hard-rock in 939 Hz, math e Jesus Lizard in American Dream, ambient e Slint in Brod, Autechre ed Aphex Twin periodo “Drukqs” in Ballad of LC. Gli ospiti di turno, che vanno da Giulio Ragno Favero a Marc Ribot, Warren Ellis e Greg Cohen, i cui contributi in Step Away from the Car danno vita ad una composizione che potrebbe essere uscita dalla colonna sonora di qualche film drammatico, se non da qualche disco di quei Dirty Three tanto cari ad uno di loro, aggiungono un po’ di pepe ad un risultato generale che merita più di una possibilità. E molto. Gustavo Tagliaferri
Roberta Cartisano – L’ultimo cuore (Broken Toys)
Un pezzo di legno grezzo e informe. Roberta Cartisano lo intaglia, lo leviga con cura, lo osserva da lontano, lo ritocca, lo lucida, lo colora di mille sfumature. È così che la immagino lavorare a questo disco: in un laboratorio, a dare vita ad un eroe di altri tempi che potrebbe tranquillamente abitare il nostro mondo per riportare a galla la bellezza della nostra presenza. La Cartisano scrive una storia, ambientandola nel futuro, ma lo fa come fosse una poetessa dell’antica Grecia. Un romanzo d’amore, amore per la vita, per l’universo, per l’umanità; col retrogusto di un poema epico. Il protagonista è Ultimo, “l’ultimo cuore” sopravvissuto alla guerra dei cieli che tramite un viandante raggiungerà Sophia (la scelta del nome non sarà casuale visto che etimologicamente vuol dire “sapienza”) al fine di proteggere (per l’appunto) la sapienza e la bellezza dalla nostra incuria. Cantautorato dalla voce calda e familiare, un sound strutturato con dedizione, fatto di pianoforte, synth e chitarre. Un disco, un libro e un’esperienza mistica in cui Ultimo sembra incontrare per strada “Hermann” di Benvegnù. Carmelina Casamassa
The Van Houtens – Flop! (Face Like a Frog)
Ne è passato di tempo da quando, in una pubblicità di McDonald’s, aveva finito per farsi strada un brano che nella sua apparente banalità, nel suo incedere a mò di marcetta, risultava molto simpatico, fedele alla formula pop, nella sua veste più sbarazzina. Quello era It’s a Beautiful Day, e Alan e Karen, stesso padre, stessa madre e stesso monicker in comune, The Van Houtens, dovevano pur farsi strada con un autentico full length. La piena mezz’ora di questo “Flop!” risulta essere un adeguato resoconto delle loro intenzioni: la voglia di giocare con un immaginario comune bambinesco, forse ulteriormente alimentata dall’orso di peluche dell’artwork, affidato ad un ineccepibile Alessandro Baronciani, e tale da passare a Baby Don’t Lie, i cui latrati sembrano rispondere a Lassie, ed una Matala il cui coro ha un sapore dell’endrighiana Ci vuole un fiore, ad una John Ferrara & Betty Karpoff dove l’italiano e l’inglese danno luogo ad un piano rock di tutto rispetto. Non mancano le ballate, movimentate (Paper Plane) o malinconiche che siano (Waiting for the Sun). Ma se si strizza anche l’occhio a sonorità più tirate (Automatic Girl) e neanche l’elettronica finisce per uscirne intentata (l’irresistibile I Want to Tell You e soprattutto 1987 Souvenir), è chiaro se i tormentoni fossero tutti come i loro sicuramente si godrebbe di più. Un flop che fa plof, in positivo. Gustavo Tagliaferri
Alfabox – s/t (Matteite)
Il rock, quello graffiante, e l’elettronica, quella che fa ballare. È questa la ricetta degli udinesi Alfabox, giunti al terzo ed omonimo disco uscito a inizio anno. Il lavoro parte subito forte con Ormai è troppo tardi uno dei migliori del disco. Caratterizzato da un basso cattivo e grezzo, un testo senza mezze misure e un muro di chitarre pronte a esplodere nel ritornello. La grande carica rimane anche nel seguente Miracolo italiano, forte e diretto con uso molto riuscito delle voci, e ne La nostra primavera un brano politicamente impegnato molto riuscito. A metà deI disco i pezzi si fanno leggermente più dance tra cui La mia città è il più riuscito ed accattivante, Ghiaccioli è senz’altro il brano più pop del disco fresco e ritmato anche se con un testo spesso poco all’altezza. E sono i proprio i testi a rendere Prima di dormire e Il morbido cecchino poco più che due riempitivi. La conclusiva La vacanza è finita ci regala un finale intenso e ricco di sfumature. Discorso a parte per una produzione ottima con arrangiamenti di gran gusto e suoni molto curati. Un disco interessante, forse qualche piccola pecca, ma trascinante. Daniele Bertozzi
Mia Wallace – Va meglio (Autoproduzione)
I risultati di una gavetta durata anni, fatta di EP, split condivisi con la concittadina Ilenia Volpe e partecipazioni a qualche concorso con tanto di giunta in finale non solo si vedono, ma possono anche avere i loro vantaggi. E i romani Mia Wallace, band al 75% al femminile, non fanno eccezione, essendo “Va meglio” il frutto di quegli stessi anni trascorsi tra cambi di vario tipo e continue maturazioni. Nove brani trainati da un rock senza fronzoli, lontano dallo spirito delle riot grrls ma trainato da una godibile voce, quella di Alessandra Annibali, che non si muove in una direzione univoca, ma tanto entra in sinergia con una dimensione maggiormente pop (la title track, Canzone d’amore) ma non scontata, quanto sa ben difendersi in situazioni più tirate, come in Tutto tranne che leggerezza, Six Shooter, Divina e fragile e soprattutto l’inaspettato restyling di repertori in antitesi come quelli di Kylie Minogue e Black Sabbath, ovvero Can’t Get You out of My Paranoid, una spaccatura tra generi blasfema e ben riuscita allo stesso tempo. Andrebbe certamente limato qualche eccesso di troppo, tale da sfociare in momenti che sono delle stonature rispetto al quadro generale (Dura madre). Ma le basi ci sono, e sono abbastanza resistenti. Un album che è un buonissimo trampolino di lancio per un gruppo la cui carica non passa certamente inosservata. Gustavo Tagliaferri
Lantern – Diavoleria (V4V/Fallo/Flying Kids)
Screamo dei primi anni ’90 e post-hardcore. Dopo l’EP “Noicomete”, i Lantern tornano in scena con una ”Diavoleria” dal ritmo serrato, miscelata ad estratti audio del film “Crimini e misfatti” di Woody Allen. Otto sputi sonori colmi di rabbia e diabolica vitalità, in un ambiente ansiogeno e teso. Un disco sul passato, in cui “ricordi” e “memoria” non possono che esserne le parole-chiave. Per rimanere in tema, una coda in copertina: metafora ed elemento anatomico di un vissuto che lascia sempre traccia dietro di noi. Durante l’ascolto aleggia quasi una presenza oscura ma l’atmosfera si stempera quando la voce dell’attore irrompe con i discorsi sull’etica e la religione. Un buon disco d’esordio in cui regnano le influenze dei La Quiete e degli ultimi Raein, ma i ragazzi riminesi hanno saputo mettere in risalto le loro abilità, risultando brevi, concisi, feroci e pungenti. Carmelina Casamassa
I Dinosauri – s/t EP (Autoproduzione)
Forme di vita che, in barba all’estinzione, si aggirano per la città, in particolar modo i vicoli parmensi, non per seminare panico nella maniera classica ma con l’intento, tra un headbanging e l’altro, di operare a suon di garage? È un identikit che ben si adatta a Giorgio De Fraia e Alessandro Canu, rispettivamente chitarrista e batterista de I Dinosauri, che con questo EP, nel giro di un quarto d’ora, non risparmiano niente e nessuno. Garage, quello dell’I N T R O, che vira mano a mano verso suoni di stampo heavy, da S A B B A T H a P R A N D I ( Q U E S T O ), ma non disdegna nemmeno qualche ispirazione math, vedesi L A B R U T T A V I T A , con tanto di relativo cortometraggio collegato all’intero lavoro e che vede le disavventure dello stesso Canu, oltre che imperterrite ed irresistibili prove di drumming di quest’ultimo, come quella che accompagna la furiosa ripresa del tema di B A T M A N . E mentre L A C A R I E è un hard-rock che strizza l’occhio all’hardcore-punk, il solo incedere di chitarra di E N D , con qualche lieve vibrazione noise, sembra essere una via di fuga di cui usufruire una volta che è stato raso al suolo tutto. Ma non c’è ancora scampo, visto che i ragazzi ne hanno di sorprese per il futuro. E se saranno ai livelli di questo lavoro, c’è solo da gioire. Magari anch’esse con un clip di accompagnamento, chissà. Gustavo Tagliaferri
Tomakin – Epopea di uno qualunque (The Prisoner)
“Geografia di un momento” aveva lasciato intravedere come dalla mente di sei ragazzi si potesse costruire delle fondamenta anche con un genere blasonato e discusso come il pop. Vista la complicità di una label come la fervidissima The Prisoner, non poteva esserci momento più consono per i Tomakin per dare vita ad un seguito del genere. Perché dietro le undici tracce “Epopea di uno qualunque” c’è di tutto e di più: le sferzate power incalzanti che danno luogo ad ipotetici nuovi inni esistenziali (i motociclisti di Avanguardisti, gli imbroglioni di Bluff Art), se non farcito anche di una buona dose di elettronica (La legge di Murphy), ma soprattutto di ritornelli irresistibili, la cui apparente banalità allo stesso tempo è la grande forza (la titletrack), attimi in cui ci si ritrova tra i Killers migliori (Squali) e certi Subsonica d’annata (Poser), simil-ballate in cui emerge il lato più malinconico dei nostri (Fuori orario, Quasi mai delusi) od un Rave il cui mood subisce un crescendo continuo, tale da favorire un’atmosfera che si afferma definitivamente in quella Flotta interstellare che non solo è il brano maggiormente “serio” dell’album, ma ne fa da adeguatissimo sipario. Certo, qualche episodio risulta essere messo a fuoco con minore intensità (Il vuoto di Torricelli) rispetto ad altri, ma a rimanere in mano in primis è un disco gradevolissimo, da ascoltare con molto piacere, per dei ragazzi la cui formula non va persa d’occhio e dove non c’è alcun uso ed abuso del concetto di ironia tanto millantato al giorno d’oggi. Gustavo Tagliaferri
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