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In questo numero: 3 Fingers Guitar, Moongoose, Gazebo Penguis/Johnny Mox, Il Triangolo, The Niro, Delay Lama, Levante, Dead Man Watching, Kyle, Kill Your Boyfriend.
3 Fingers Guitar – Rinuncia all’eredità (Neverlab/DreaminGorilla/Snowdonia/Rude)
Cantautorato e post-punk, con relative ramificazioni. Correnti solo apparentemente inconciliabili, eppure, quando si vuole, tali da incrociarsi e dar luogo a qualcosa di proprio. Simone Perna, mente principale di 3 Fingers Guitar, è uno di quelli che hanno capito bene il tutto, anche quando c’è da trattare a modo proprio il rapporto tra padre e figlio. “Rinuncia all’eredità“, appunto. Una regola a cui l’artista tiene fede già dall’Ingresso con cui si apre l’album, composizione che potrebbe essere l’ideale incontro tra art, math-rock e no wave, in una metamorfosi tra lo spoken word di Perna ed una sezione ritmica frenetica e caratterizzata da accenni di stampo tribale. Così come P. è la cronaca di un amore atipico, vomitato con una veemenza più faturista che ferrettiana su un noise metallico, Riproduzione si abbandona ad un vortice fatto di ispirazioni fugaziane, mentre la pacatezza di Fuga, unico momento prettamente d’autore, fa da stallo attraverso cui concedersi una boccata d’ossigeno. Ma è soprattutto nelle situazioni più intricate, rappresentate dal crescendo assassino della title track, ma soprattutto da una L’unica via la cui linea introduttiva di basso lascia spazio ad otto minuti di blues suburbano trainati da una chitarra memore persino di certa new wave, che “Rinuncia all’eredità” graffia lasciando un segno indelebile. E salmodiare sulla Fine del disco significa allontanarsi per quello stesso corridoio da cui si è passati, con la consapevolezza di aver fatto un album da non lasciare in disparte, sempre più avvincente, ascolto dopo ascolto. Gustavo Tagliaferri
Moongoose – Irrational Mechanics (Nobau)
“Irrational Mechanics“. Due parole che scatenano mille domande, che rimandano ad un mondo e poi ad un altro diametralmente opposto al primo, per dire: la fisica e la filosofia. L’esordio dei Moongoose è arrivato, affidandosi a quel genere definito “cinematico” e “onirico” che, se fatto bene, descrive un viaggio mentale da sempre associato al genere trip hop. Bristol sound affidato a una voce femminile che si presta a rendere tutto più arioso, elettronica che rasenta lo smooth-jazz in alcuni brani, dub e tratti psichedelici. Closed Field apre le danze con un ritmo sostenuto, in cui basso e batteria si rincorrono fino alla fine del brano, segue la fluttuante e cinematografica Mistake, in cui viene riciclato dal trio il campione di un film (il fantascientifico “Solaris” di Tarkovskij). Il continuo è l’unica con titolo in italiano, l’unica che si contraddistingue per una personalità completamente diversa dalle altre; in cui regna l’imprevedibilità e sembra venir fuori da un lavoro diverso. O forse è lì per spiazzare certezze e meccaniche razionali. Un disco derivativo (i Portishead sono senza dubbio l’influenza principale) ma non privo di ricercatezza sonora e dettagli interessanti. Carmelina Casamassa
Gazebo Penguins/Johnny Mox – Santa Massenza (Woodworm/To Lose La Track)
Cronache, spaccati della propria esistenza, pezzi del proprio io ben ripresi da una memoria fotografica che non gioca brutti scherzi. Deve sembrare un’operazione difficile trasmettere tutto ciò all’interno di uno split 12″. Ma quando l’indole è la stessa che contraddistingue i Gazebo Penguins da una parte e Johnny Mox dall’altra, il tutto non appare neanche tanto complicato. “Santa Massenza” è un trattato fatto di cuore, muscoli e cervello. “Santa Massenza” è la situazione più consona per il tono con cui si presentano, per i primi, Riposa in piedi ed Aspetteremo, che si allontanano dagli stilemi a cui sono sempre risultati avvezzi prediligendo maggiormente quella corrente post-emo-screamo cara ai colleghi Fine Before You Came e tale da fare da riferimento tanto a “LEGNA” quanto a “Raudo“, mentre scorrono, descritte minuziosamente da Capra, le istantanee di officine meccaniche, cimiteri, bar, policlinici e soprattutto un memoriale dedicato ad un amico volato via. E “Santa Massenza” è anche quella del secondo, suonata in una locomotiva dove da un gospel introduttivo (Only Those Who Can Leave Behind Everything They’ve Ever Believed in Can Hope to Escape) si passa ad una Hollow prayers che è un concentrato di linee di basso di matrice funk e conseguenti riffoni hard rock ed una preghiera blues, memore di certi indiani d’America e dalle tinte stoner come quella di Oh Reverend. La colonna sonora ideale per accompagnare le disavventure, più reali che mai, di un Andreas Plack qualunque, protagonista di storie fatte non di strada, polvere e sbronze, ma di motoseghe, invalidità e morte. Ma certamente avere a che fare con uno split del genere significa non rimanere delusi, neanche per un secondo. Dalle storie, dalla musica, da tutto. Da “Santa Massenza”. Gustavo Tagliaferri
Gouton Rouge – Carne (4V4/3SX)
“Carne” è l’esordio cupo e viscerale dei Gouton Rouge: giovani passioni e delusioni amorose, un paesaggio piuttosto oscuro che si cela sotto strati di nebbia. I titoli rispecchiano la natura dei brani, ovvero l’immediatezza data dai testi e dal minutaggio ridotto di questo rock alternativo misto a ritmiche post-punk, in cui, nell’atmosfera elettrica è possibile cogliere suggestioni shoegaze. Fatta eccezione per Ancora, l’omogeneità dirompente delle tracce stanca e non concede nessun momento di stupore. Potrebbe tornare utile ascoltare il disco per ricordare, di tanto in tanto, di quanto si è carnali a vent’anni e di quante energie si è in grado di investire in certe situazioni. Inoltre, la ripetitività che lo caratterizza ci porta a valorizzare la brevità delle canzoni che ha quantomeno limitato i danni. Carmelina Casamassa
Il Triangolo – Un’America (Ghost)
Se è vero che l’effetto sorpresa può risultare una pratica a doppio taglio, altrettanto lo è che in certe occasioni possa finire per rivelarsi come un autentico tocco di classe per le proprie opere. È il caso di quel “Tutte le canzoni” che, una volta uscito, sotto il segno del vintage, tanto nell’artwork quanto in uno spirito di stampo 60’s, ha scongiurato ogni rischio di mera operazione nostalgia attraverso dieci brani di altissimo livello. Voltare lo sguardo in quel di Luino, mettendosi nei panni dei tre ragazzi che compongono Il Triangolo, e tenendo a mente quelli che sono i propri riferimenti, è chiaro come tornare in scena, quasi di soppiatto, alla luce di un tramonto in spiaggia, possa essere complementare alla stesura di una locandina di una qualsivoglia pellicola. “Un’America“, appunto. Un frutto di mesi di lavorazione e rinnovamenti di se stessi rappresentato da una sorta di lungometraggio dove ad echi delle radici di cui sopra, come La playa o una Martedì di settembre che ricalca il beat della passata Canzone per una ragazza libera risultando altrettanto gradevole, si contrappongono le altre facce della band: galoppate come per la title track, con un ritornello che si allontana dal banale mood da stadio (e non scherza neanche l’intima ripresa presente in chiusura), punk per Icaro, calda new wave per Varsavia, incalzante rock robotico per Con lei, pop per Amanti, sapori sovietici per Oradarada. La giusta carne al fuoco che fa sì che i ragazzi si ripropongano più in forma che mai, consapevoli di aver raggiunto una maturità da non poco conto, che rende il lavoro in questione irresistibile. Chapeau. Gustavo Tagliaferri
The Niro – 1969 (Universal)
Terzo disco per Davide Combusti, in arte The Niro, che a questo giro ci propone un’ulteriore novità. Sì, perché per l’artista romano è tempo di misurarsi con la lingua italiana, è tempo di bilanci (Qualcosa resterà), di riflessioni sociali e intimismo, di disillusione e racconti malinconici. Sound esterofilo ma di stampo pop, in cui si mescolano e si alternano corposità e leggerezza senza mai cadere nella prevedibilità. The Niro ha carattere e talento da vendere, lo dimostra il fatto che continua a sorprendere con i suoi arpeggi di chitarra e la sua voce in falsetto che gioca spesso un ruolo importante. Nonostante il peso di certe parole (alleggerito dalla solarità delle melodie), l’impatto è più o meno immediato. Una volta entrati nel mood, verrà naturale riascoltare il disco ancora una volta. “1969” è un volo pindarico dalla terra alla luna, lasciandosi sollevare dalla gravità per poi tornare coi piedi per terra. Decisamente superata anche la prova in italiano! Carmelina Casamassa
Delay Lama – Hablacablah (Technicolor)
Non guru ultrapompati e parolai erti a salvatori della patria, ma individualisti fedeli all’elettro-spiritualità. Sembrerebbe essere questo il proclama che spinge i tre musicisti che formano i Delay Lama, in particolar modo il batterista Luciano Turella, già all’opera come suonatore di viola con i furono Eildentroeilfuorieilbox84, Criminal Jokers e di recente Nada, a ricreare un universo dove la meditazione possa essere tanto atta ad una liberazione mentale quanto alla creazione di un suono tanto elementare quanto complesso. Chiamarlo “Hablacablah” è solo il primo passo, altrettanti ce ne vogliono per assaporare ogni singola composizione. C’è di tutto, e se Anyone Can Dance, acida al punto giusto e con il cantato aggiuntivo di Marina Mulopulos, a metà tra Laurie Anderson e Ròisin Murphy, che dà un tocco maggiormente allucinato al tutto, rappresenta l’episodio maggiormente accessibile, non scherzano affatto la psichedelia di Electric Monk, il math-rock fatato di Andropausa, una Frankenstein che unisce ritmiche spazial-tribali ed espedienti degni dell’universo Cramps, il crescendo thrilling dell’organo che accompagna Il mostro dall’ala trina, i vocalizzi e i tripudi di synth di Muore la moglie e lei per il dolore la segue dopo poche ore, se non addirittura la surreale suite sospesa tra jazz, classica e movenze zappiane Tortocollo e Japanther e John Cage a colloquio con gli Autechre prima di liquefarsi reciprocamente al suono di un incedere metallico, nel silenzio di Post Industrial Age. Molteplici gli elementi, molteplici le soddisfazioni, molteplici i desideri di convertirsi per la prima volta ad una nuova religione sonora. Più Delay Lama per tutti. Gustavo Tagliaferri
Levante – Manuale distruzione (INRI)
Levante, cantautrice pop (a metà tra una Carmen Consoli e una Cristina Donà), esordisce ufficialmente con “Manuale distruzione“. Per la serie: non c’è crescita senza dolore. A trainare il disco sono i racconti di una vita vissuta intensamente, per poi scoprire che le cose che più amiamo sono quelle che alla fine si ritorcono contro. Un disco decisamente orecchiabile, che vede l’intreccio di chitarre e della sua meravigliosa voce che viene modulata diversamente quasi ad ogni brano. Animi che si rotolano nel dolore e nel passato, cuori che sfruttano al massimo le proprie possibilità, che accarezzano e rassicurano qualcuno che non c’è più; storie d’amore che vanno e vengono ma, dopotutto, anche forza e voglia di vivere. Sembra che la produzione di (Alberto) Bianco abbia dato molto a questo esordio che non presenta innovazioni ma che, nella sua piacevole scorrevolezza, dimostra tanta cura. Non lasciatevi ingannare dal titolo “cinico”, anche i brani più cupi mantengono ritmi vivaci e allegre malinconie. Purtroppo non è un bene che la maggior parte dei brani risulti così facilmente memorizzabile. Carmelina Casamassa
Dead Man Watching – Love, Come On! (Cabezon)
Tracciare il profilo di John Mario appare come un compito facile, di primo acchito. Ma quando ci si ritrova al punto di avere a che fare con un visionario, allora le cose si fanno più complicate, ma non per questo meno affascinanti. Come se fosse arrivato il momento di mettersi nei panni di quello che potrebbe essere anche il proprio interlocutore, esplorare un’anima che trova la maggiore espressione di sé attraverso una musica folk-cantautoriale, spirito della voce dei veronesi Dead Man Watching, così come “Love, Come On!” fa da unanime dichiarazione d’affetto verso ciò che lo circonda. Devozione condivisa anche per quel che riguarda soprattutto il repertorio di ispirazione su cui si muove il gruppo, riflesso in un passaggio che va da attimi malinconici (la crepuscolarità di August Burns, gli archi di Erica Mason ed Andrea Marcolini che animano Bad Teen Movie allo stesso modo dei lievi shakers della title track) che si evolvono in istantanee di pura intimità (Ten Dead Songs) a vibrazioni di stampo rock (In the Badlands, Give It a Sound) da inaspettati inni agrodolci dalle intuizioni ’60s (Jesus Christ Wannabe), se non anche alt-country (Bite), a costruzioni intricate maggiormente vicine ai giorni nostri, come nel caso dello slow-core di Red Balloon o la coda soffusa ed eterea di Here the Night Comes. Il risultato è un disco, quello del trio, che fa sì che quella stessa anima, metafisicamente parlando, entri immediatamente dentro l’ascoltatore, generando un fuoco che piano piano brucia sempre di più. Perché intenso come i brani con cui si ha a che fare. Gustavo Tagliaferri
Kyle – Space Animals (Overdrive)
Una fresca ventata di pop semplice, puro e orecchiabile che non può che portare il sorriso e il sereno. Questo è quello che vi succederà dopo l’ascolto di “Space Animals” dei Kyle. Dieci tracce ben cantate e ben arrangiate che possono solo piacere per la loro immediatezza e semplicità, infatti coi Kyle ci si sente sempre a casa e la sensazione è sempre gradevole. Si susseguono senza sosta attimi che si distinguono tra di loro in bilico tra i momenti trasognanti di Space Country, nei richiami folk di Sun/Clock o in attimi più dilatati come nella conclusiva “Warnings”, con un finale che vi rapirà. Certo, in fondo non c’è nulla di nuovo in questo disco, ma lascia addosso morbide e belle sensazioni, tipiche di un risveglio in una mattina assolata dopo un bel sogno. Daniele Bertozzi
Kill Your Boyfriend – s/t (Shyrec)
Treviso, anno domini 2013. A stagliarsi sull’orizzonte è uno scenario freddo, post-industriale, dove il devasto la fa da padrone. Per quanto l’apocalisse non sia ancora in procinto di arrivare, le apparenti guerriglie fanno sì che poco ci manchi. È difficile da accettare la realtà urbana, per quel che riguarda il suo lato più scuro e disagiato, ma è anche possibile farla diventare il punto di riferimento dei tre ragazzi che danno luogo al progetto Kill Your Boyfriend. Un nome che parrebbe essere tutto un programma, una documentazione, quella del loro album d’esordio, che pesca a piene mani dalle correnti musicali “rumorose” degli anni ’80 ed oltre dando vita ad un ipotetico concept album: otto modi di identificare l’ambiente circostante e chi ne fa parte, otto nomi, otto musiche. Ci sono Dexter e Henry, sporchi quanto basta per rappresentare tra i due e i tre minuti dei concentrati di vita di stampo industrial, c’è Jacques, che manda insolitamente a nozze con sé certi Depeche Mode del periodo “Black Celebration”, c’è Egon, tra post-punk e shoegaze. E poi Tetsuo, fatto non di contaminazioni carnal-metalliche alla Tsukamoto ma di vibranti e granitici riff che incessanti si apprestano a tessere le trame di un volto confuso, fino alle ciliegine sulla torta di Xavier, cadenzata ed eterea ballata post-moderna, e William, unico momento fuori dal coro, dove ad avere la meglio è un blues decadente. La produzione, in mano a Nicola Manzan, dà il colpo di grazia ad un album che, malgrado qualche leggera scivolatura tendente al derivativo, sa come scuotere e percuotere, lasciando parecchie soddisfazioni. Gustavo Tagliaferri
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