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Due tiri, due centri. Il siciliano Lorenzo Urciullo sembra non sbagliare un colpo. Il suo Egomostro sta infatti bissando il successo di pubblico e critica raccolto da Un meraviglioso declino, il suo esordio datato 2012. E mentre l’italico suolo assiste alla fioritura di quel che qualche tempo fa definivo un ‘diamante grezzo‘, il nome Colapesce inizia a incuriosire anche la stampa estera, come dimostra la recente intervista apparsa su lemonde.it, l’equivalente francese su web del nostrano Corriere della Sera (forse con giusto un po’ più di prestigio). Qui a Mag-Music invece continuiamo a seguirlo con attenzione, come abbiamo sempre fatto sin dall’EP omonimo di debutto. Venendone ricambiati: quelle che seguono sono le risposte ad alcune domande che abbiamo posto a Colapesce. Buona lettura!
E infine giungesti al traguardo del secondo disco. Tre anni di silenzio per tornare con un gran bel lavoro. Come è andato questo parto?
Esatto, è stato un vero e proprio parto… Direi bene, sono stato accolto da tutti a braccia aperte, sia dalla stampa che dal pubblico e non era una cosa scontata essendo un disco molto diverso rispetto a Un meraviglioso declino.
Nel periodo di lavorazione, hai mai avuto un po’ di ansia da prestazione? Autoindotta e non.
Certo, la pressione del secondo disco esiste davvero, soprattutto se il primo è un disco come Un meraviglioso declino che ha avuto un discreto successo di critica e pubblico. Però alla fine avevo delle idee forti e quindi sono andato dritto come un treno, senza pensare troppo a “chissà se piacerà”. Ho seguito il mio cuore.
Dicono che il terzo disco sia quello più complicato, ma non sono d’accordo. È il secondo per me il più difficile, perché maggiore è il rischio di fotocopiare il proprio esordio. Nel tuo caso, invece, se questo rischio c’è mai stato l’hai saltato d’emblée.
Grazie, si è un disco molto diverso e ben riuscito. Almeno per me.
Quanto ti sei divertito in mezzo a tutta questa elettronica, tra tastiere e sintetizzatori? E soprattutto quando hai capito che direzione musicale dare all’Egomostro? Ci incontrammo a Napoli in occasione del Bipolare Tour e, forse per depistarci, ci dicevi che ti stavi orientando su Bon Iver…
Lavorare con l’elettronica e con i synth è molto stimolate a livello creativo, anche se Egomostro non è un vero proprio disco di elettronica, anzi è molto suonato. Basti pensare a Maledetti italiani o L’altra guancia, i primi due singoli, dove di elettronica non c’è traccia. Anche il resto delle canzoni è pieno di strumenti acustici in equilibrio con quelli elettronici. Non vi volevo depistare, secondo me ci sono anche quel tipo d’influenze, soltanto che quando parlo d’influenze non intendo “copiare alla lettera un’artista”, ma piuttosto trarre delle suggestione sonore. Sottocoperta ricorda un po’ il mondo di Bon Iver, per esempio.
Capitolo testi. A ‘sto giro sono piaciuti anche al recensore di OndaRock. Contento? Al di là di questo però, seriamente, e alla luce del fatto che ci lavori molto sopra, che è tutto un gioco sottile di equilibrio tra parola e suono, non pensi che alcune volte distraggono l’ascoltatore dalla musica? Non i tuoi eh, parlo in generale di chi scrive testi in italiano.
Non credo. Sicuramente i miei testi richiedono più attenzione rispetto ad altri che mettono parole a caso per chiudere una canzone. Ma credo che alla lunga questi diversi gradi di lettura diano una vita migliore alla canzone. Nel mio caso si può affermare serenamente che la parte musicale non è in ombra rispetto ai testi. Anzi sto molto attento a questo aspetto. Nel cantautorato classico però è come dici tu, la musica è in secondo piano, ma non è una colpa, è la caratteristica del genere.
Dicevi che si tratta di testi molto intimi. Possiamo definire Egomostro un lavoro sincero?
Si, non so dire balle a me stesso.
Ma la sincerità è un complimento per un musicista? Qualche tempo fa ascoltavo un programma su Radio Città Futura e il conduttore faceva notare come un grande tra i più grandi, Dylan, è stato tutto tranne che sincero.
In questo preciso momento storico, forse più che ai tempi di Dylan, la falsa sincerità è diventata di moda, quindi bisogna stare attenti. Da X Factor al Grande Fratello, la sincerità (o presunta tale) è alla base del successo stesso di queste trasmissioni verità. Quindi oggi più che mai capisco benissimo la posizione di Dylan. Sta alla sensibilità dell’ascoltatore cogliere tutte queste sfumature. Anche se in Italia la musica è solo intrattenimento becero e i fruitori meno si sforzano meglio stanno.
Il rapporto con la Sicilia. La sicilianità, ci dicevi in un’intervista un po’ di tempo fa, non è mediata però viene fuori ugualmente, è una cosa che non puoi controllare. Perfetto, d’accordissimo. E per quanto riguarda il dialetto? Com’è il tuo rapporto con il tuo vernacolo? Hai scritto e cantato in inglese, poi nella lingua di Dante, ci pensi mai a testi in… siracusano? Oppure il dialetto è roba da musica folk o, e rabbrividisco nel dire questo termine, etnica?
Il mio rapporto con il dialetto è ottimo, lo parlo e lo studio. È la lingua madre e la so anche cantare. Da poco ho prodotto, insieme a Mario Conte, il disco del grande Alfio Antico, e nel mio lavoro Nove cover ho reinterpretato una canzone di Rosa Balistreri Mafia e parrini, in chiave Neil Young, quindi non da l’effetto etnico come dici tu. Ci penso, ma ogni cosa a suo tempo.
Hai già pensato a come portarlo in giro dal vivo? Che cosa ci dobbiamo attendere? Ho assistito a un tuo concerto quando portavi in tour Un meraviglioso declino e ricordo arrangiamenti molto fedeli all’originale: poche, pochissime divagazioni, esecuzioni perfette nel riprodurre le versioni in studio. Te lo chiedo anche perché ho dato un occhio alle tue future date e ho visto location un po’ insolite. Per dire, vieni a Roma e te ne vai al Quirinetta.
Anche in questo caso il live sarà molto fedele alla registrazione, ma con qualche fuzz in più. Non mi sembra che la mia agenzia abbia scelto location insolite, sono tutti club bellissimi, compreso il Quirinetta.
Ci parli un po’ della ricerca sonora che c’è dietro Egomostro? Penso soprattutto al tamburo a cornice presente in Copperfield, per esempio.
Il tamburo a cornice è suonato dall’immenso alfio antico. È un disco pieno di influenze esotiche rispetto al mio precedente lavoro. In Copperfield abbiamo usato pure il Marxophone, uno strumento degli anni ’30, una Roland TR-808 e dei violini. È una canzone speciale a cui tengo molto. Quest’attitudine di ricerca c’è in tutto il disco.
A maggio uscirà la graphic novel che ti ha visto impegnato insieme con Alessandro Baronciani. Più che parlarci dell’opera in sé, ci vuoi raccontare per sommi capi il lavoro che c’è dietro? Il tuo lavoro, ovviamente. Se nello scrivere le tue canzoni stai molto attento all’equilibrio tra parole e musica, in questo caso hai dovuto fare molto attenzione al rapporto delle parole con i disegni, o sbaglio?
Si esatto, abbiamo trovato un equilibrio fra il suo tratto e le mie parole e sono molto contento del risultato. La graphic novel s’intitola La distanza, intesa sia come distanza geografica che emotiva. In parte ci siamo lasciati ispirare dal L’avventura di Antonioni, è un lavoro molto ambizioso e sono sicuro che piacerà molto anche agli appassionati di fumetti.
Quanto ti piacciono i cosiddetti fumetti?
Molto, ultimamente ne leggo veramente tanti. È un linguaggio immediato e potente.
Come è trascorso il tempo in sala di registrazione? Che cosa facevate quando non suonavate?
Mangiavamo pesce o parlavamo del disco. Quando eravamo in Sicilia facevamo delle lunghe pause immersi nello Ionio.
Chiudo aprendo una parentesi personale. La prima volta che mi fecero ascoltare un tuo brano, Restiamo in casa mi pare, la mia reazione fu di respingimento. Sinceramente non capivo che cosa ci trovassero nelle tue canzoni le persone che me ne parlavano in termini entusiastici. Però poi Un meraviglioso declino mi è entrato dentro, non sono riuscito più a farne a meno. E anche ora, riascoltato a tre anni dall’uscita, regala grandi emozioni. Questo invece nonostante sia partito sin dal primo ascolto con una predisposizione del tipo “ok, fa di me quel che vuoi, conducimi dove vuoi te, mi affido in toto a te”, ho iniziato a godere dal sesto-settimo ascolto. Non sei per niente accomodante verso il tuo ascoltatore eh?
I rapporti migliori sono quelli che si svelano pian piano. L’immediatezza non è una mia caratteristica, anche se oggi è alla base del grande successo.
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