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6 luglio 2015
Immerso nella periferia più buia, il Carroponte è un posto talmente bello che quasi sembra di non essere a Milano: nonostante il pratone sterminato sormontato dalle strutture di un ex cantiere, arrivare qui in una serata come questa è quasi come entrare in uno di quei piccoli locali seminterrati dall’atmosfera raccolta e calorosa, dove i soliti avventori passano le serate ad ascoltare roba che merita.
E infatti appena superato il cancello d’ingresso le prime buone vibrazioni arrivano dai Bud Spencer Blues Explosion, il power duo romano che in apertura snocciola una dopo l’altro le canzoni migliori, tutte sbrindellate, fatte a pezzi e ricucite per l’occasione per lasciare spazio alla schizofrenia chitarristica di Adriano Viterbini, che nel finale viene posseduto dal fantasma di Tom Morello.
I Bud ringraziano, il pubblico anche, e dopo mezz’ora arriva finalmente il momento che tutti aspettavano. Annunciati da un pezzo dei Bee Gees, gli Eagles of Death Metal (senza Josh Home, ca va sans dire) salgono sul palco, guidati dal sopraffino e baffuto Jess Hughes, uno di quei mammasanta del rocchenroll che nemmeno sai spiegarti da dove siano arrivati. Poche parole, il tempo di un sorriso e si parte all’attacco col poker Bad Dream Mama, Don’t Speak (I Came to Make a BANG!), Cherry Cola e Whorehoppin’. Noi sotto al palco non riusciamo a stare fermi, loro sopra al palco nemmeno ed ecco che allora arriva anche Complexity, primo singolo estratto dall’album Zipper Down, in arrivo a ottobre. La canzone è danzereccia e ricca di bassi, peccato che, per ammissione stessa di Hughes (“non conosco ancora i pezzi nuovi”), la chitarra venga lasciata ad uno dei fonici, che la suonerà anche nel successiva (e sempre nuova) Silverlake. Subito dopo è una fiumana di successoni assicurati che fanno muovere un bel po’ i fianchi del gentil sesso, vedi alla voce So Easy, Wannabe in L.A., Stuck in the Middle with You, I Got a Feelin (Just Nineteen), I Want You So Hard (Boy’s Bad News). In mezzo c’è tutta un’epopea di battute, scherzi e cazzate varie. Merito della premiata ditta Hughes, che con fare da imbonitore televisivo/predicatore religioso tiene le redini del pubblico come il migliore dei mattatori, complice anche la presenza umoristica del buon Dave Catching, un figlio di puttana vecchio stile, a metà tra Babbo Natale e uno degli ZZ Top. Come a dire che se ci fosse stato anche Josh Homme, il concerto sarebbe probabilmente diventato una stand-up comedy. Purtroppo arriva anche il momento del finale: dopo qualche cover in solitaria, tra cui Brown Sugar degli Stones, Hughes richiama sul palco i suoi caballeros per sparare le ultime due cartucce in canna: una agguerritissima I Only Want You e una Speaking in Tongues che al secondo ritornello diventa un duello spastico tra i due chitarristi.
Roba così non se ne vede tanta: Hughes e compagni non hanno certo reinventato nessuna ruota, ma rock’n’roll di questa fattura non è roba che si trova al mercato al banco frigo. No, ci vuole il caldo dell’estate milanese e una ventata di fresco che arriva dritta dritta dai deserti della California.
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