Ho sempre considerato Sufjan Stevens un songwriter sulle sue e abbastanza estroverso, di quelli in grado di ribaltare stilemi e clichè che riescono ad andare comunque più che bene; ma questa volta, aprendo il favoloso e stravagante digipack arrivatomi a casa, son rimasto di stucco. Inserendo il cd nel lettore, la mia espressione facciale ha preso un aspetto ancora più estraniato grazie alle note e ai beat elettronici che subito prendono il sopravvento. In breve, Sufjan, dopo dieci anni di laboriosi progetti (con i quali l’eclettico cantautore del Michigan è divenuto capostipite di un certo folk -pop orchestrale) e dopo l’effettiva consacrazione avvenuta con “Illinois”, decide ci cambiare rotta con un album che davvero scuote gli animi dei suoi adepti e non solo.
Un concept misterioso che si rifà all’opera omonima di Royal Robertson. Un disco con quale Sufjan Stevens fa dell’ambiguità il suo punto di forza; anche se a volte esagera (la voce, modificata nell’intermezzo dei venticinque minuti della finale Impossible Soul, è forse un tantino pacchiana), ma d’altro canto come si fa a negare l’attrazione verso i fantasiosi avvicendamenti elettro – sperimentali di Too Much, che in parte si ripetono, nello stesso stile epico – fiabesco, nella successiva Age of Adz. E se le nenie di Futile Devices, I Walked e Now That I’m Older vi sembrano monotone e stancanti, tranquilli perché l’euforia e i crescendi di Get Real Get Right e Vesuvius (quest’ultima deve qualcosa addirittura agli Animal Collective; non l’avreste mai pensato eh?) alzano subito il passo. Degna di nota, dal primo all’ultimo minuto, la lunghissima e conclusiva Impossible Soul: un incipit da pop-ballad tranquilla e sorridente, distorta da diavolerie e controtempi elettronici; space – music chiaramente futurista dove si poggia l’armoniosa e bellissima voce di Sarah Worden aka My Brightest Diamond.
Insomma, avrete capito di cosa si tratta; ambigue delizie elettroniche, forse stancanti e sottotono, se ascoltate senza preporsi un discorso che è meno vago di quanto possa sembrare: la bellezza e l’essenza di “The Age of Adz” sta proprio nell’incrocio quasi assurdo del classico Sufjan Stevens giocoso e sdolcinato con sortilegi elettronici e col solito, pomposo guizzo epico.
È questo “il tipo di orecchio” col quale ascoltare “The Age of Adz”, e vedrete che il risultato, molto probabilmente, sarà soddisfacente.
I Want to Be Well si chiama (e recita) la penultima traccia del lotto. Bene, caro Sufjan, ci sei riuscito.
Davide Ingrosso per Mag-Music
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